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LETTERE AL DIRETTORE

FRANCESCO PRANDEL * GIORNALISMO E LIBERTÀ DI PAROLA: « LA SISTEMATICA RIPRODUZIONE DEL FALSO E LA PUNTUALE RIMOZIONE DEL VERO SONO CAMPANELLI D’ALLARME »

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18.33 - giovedì 19 ottobre 2023

Gentile direttore Franceschi,

 

desidero approfondire il tema: il risveglio del “mostruoso”. A differenza di certi giornali che non le hanno pubblicate, nei mesi scorsi la sua Agenzia giornalistica ha dato spazio a un paio di mie riflessioni non precisamente allineate al discorso dominante.

Mi riferisco alle lettere aperte che ho inviato ai dirigenti scolastici trentini, nelle quali ho espresso posizioni piuttosto critiche sulle sospensioni che hanno disposto durante la pandemia, e sulla digitalizzazione della didattica che stanno avvallando. Ad oggi non ho avuto alcuna risposta, ma non ne faccio un dramma.

Chi come lei lavora nell’ambito del giornalismo sa bene che, a volte, il silenzio contiene più informazione di certi fiumi di parole. Il silenzio che segue certe domande non va letto come mancata risposta. Tutt’altro: è una risposta molto più chiara di quella che si potrebbe offrire imbevendo di retorica mezza pagina di giornale, imbottendola di luoghi comuni ormai ampiamente sconfessati e scimmiottando frasi fatte prive di reali contenuti. Il pluralismo che la sua Agenzia Giornalistica ha mostrato pubblicando i miei pensieri, graditi o meno che siano, è una virtù che si fa sempre più rara proprio in un momento storico, com’è quello attuale, in cui ce ne sarebbe invece estremo bisogno. È la miglior cura a quella malattia che, di quando in quando, colpisce la collettività ingessandola pericolosamente in posizioni aberranti.

Negli ultimi tre anni il servizio offerto dalla maggior parte dei media ha subito un mutamento importante. A partire da 2020 la polarizzazione dell’informazione – una sua caratteristica certamente tipica, che presenta oscillazioni storiche di una certa ampiezza – è cresciuta in maniera vistosa. Parallelamente, e in modo altrettanto evidente, si sono polarizzate le vedute dei vertici istituzionali, della classe dirigente, dell’uomo della strada. Indipendentemente da come la pensano, presumo che in molti abbiano avvertito questo sbalzo di tensione. Chi con la pandemia, chi con la guerra in Ucraina, chi con quello che sta accadendo in Medio Oriente. Nel mentre un pezzo di società – di cui fa parte quella che conta – si arrocca su una posizione, l’altro si barrica dietro alla posizione antipodale.

Si potrebbe obiettare che non c’è niente di nuovo sotto il sole, che l’informazione è sempre stata più o meno tendenziosa, che le spaccature sociali sono una costante storica. È vero. Per quello che ne sappiamo, le cose sono sempre andate più o meno in questo modo. Se vogliamo dirla tutta, però, va detto anche detto che la storia è costellata pure di barbarie: un’altra costante storica, non dimentichiamolo troppo in fretta. Certo, non ogni spaccatura sociale si risolve in una guerra civile o in un genocidio, ci mancherebbe. Però mi sembra di poter dire che il nostro genere ha saputo dare il peggio di sé proprio in seguito allo scomporsi di fratture sociali fomentate – quando non ingenerate – da quell’informazione fortemente polarizzata che si chiama propaganda. Per molti versi, siamo caduti più in basso quando ci siamo lasciati dividere dall’ideologia che non quando, a tracciare la linea di frattura, era un confine geografico.

Con chi hanno toccato il fondo i nazisti? Con i francesi e gli inglesi, o col popolo ebraico? Negli ultimi anni – prima con la pandemia, poi con la guerra in Ucraina, ora con il riacutizzarsi del conflitto israelo- palestinese – sempre più concittadini hanno toccando con mano la propaganda. Hanno notato l’intransigenza e l’intolleranza di un potere che manifesta i suoi intenti distorsivi ed estorsivi ripetendo senza sosta slogan pretestuosi e tendenziosi, e insabbiando accuratamente non solo gli eventi storici che consentirebbero all’uomo della strada di comprendere la situazione attuale, ma persino dati e fatti di recente acquisizione. Non si mente solo affermando il falso, si mente anche – forse soprattutto – tacendo il vero.
Non so a lei, direttore, ma a me la piega che stanno prendendo le cose comincia a suonare come una lugubre avvisaglia. Forse sono un po’ paranoico – non posso certo escluderlo – ma questo rumore di fondo mi sembra preludere a una cacofonia già sentita.

A chi conserva un po’ di memoria storica, non può che ricordare gli esordi di certe sciagure del secolo scorso. Mi riporta alla memoria la passerella degli eventi che, nell’arco di pochi anni, ha condotto una nazione europea sull’orlo di quel baratro in cui è poi miseramente precipitata. Un passaggio preliminare che l’ha preparata a rispolverare quel lato umano che Günther Anders chiamava “il mostruoso”: una sfaccettatura latente del nostro animo, che in certi frangenti storici riemerge e si manifesta. La sistematica riproduzione del falso, e la puntuale rimozione del vero, sono campanelli d’allarme che suonano da tempo, ma forse abbiamo la memoria troppo corta per sentirli. Ultimamente, direttore, mi chiedo spesso che cosa ci fa credere di essere tanto migliori dei nostri predecessori, che cosa ci fa pensare che certi drammi umani non possano riproporsi – sotto altre e mentite spoglie – nel ventunesimo secolo. Sulla base di quali elementi, mi domando, siamo così convinti che certe curvature della mente umana non possano riprendere il sopravvento, fino a riguardarci in prima persona?

Come ricordavo prima, la via della storia – non solo quella del “secolo breve” – è lastricata di barbarie. Il motivo è presto detto: come i nostri corpi, anche il potere ogni tanto si ammala. E i primi sintomi di quella patologia degenerativa che periodicamente lo colpisce sono proprio la distorsione della realtà, l’estorsione del consenso, la repressione del dissenso, la censura del pensiero critico Tutte cose già viste quasi un secolo fa, e che si stanno ripresentando in grande stile sulla scena dei nostri giorni. Ovviamente, da solo, il potere malato non ha modo di esercitare la propria influenza deleteria. Anche qui, la storia insegna: certe tragedie del secolo scorso si sono consumate non solo a causa dei leader che ne hanno partorito i presupposti ideologici. Il grosso del lavoro è stato fatto dalla classe dirigente, che si è prontamente allineata alla narrazione dominante fornendole la necessaria cassa di risonanza, così da renderla prontamente esecutiva e pienamente operativa.

Come Martin Luther King, allora, anch’io «non ho paura delle parole dei violenti, ma del silenzio degli onesti». Non mi preoccupano tanto gli auguri che certi medici, giornalisti e politici hanno riservato a chi non la pensava come loro durante la pandemia. Né mi inquietano i commenti che ho sentito fare su chi, conoscendo i presupposti storici dei conflitti che si sono riaccesi, ha rifiutato di santificare certi guerrafondai e di demonizzare i loro avversari. Ciò che mi spinge a questa riflessione è più che altro il silenzio di chi potrebbe e dovrebbe dire qualcosa. In particolare mi gratto la testa quando, a tacere, sono coloro che per primi dovrebbero far valere certi elementi intellettuali e culturali, e cioè i vertici della scuola e dell’università. Questo perché, come osservava Claudio Giunta, « in questo modo l’università cessa di avere – come dovrebbe avere e come di fatto aveva in passato – una funzione guida nei confronti della società e diventa una semplice fornitrice di manodopera. La sua funzione critica e di indirizzo scompare, e in cambio subentra l’obbedienza a ciò che la società impone. E la società, una volta messi a tacere quei luoghi del disinteresse che sono appunto la scuola e l’università, altro non è se non il mercato, la legge del profitto».

È di questi giorni la notizia che oltre un centinaio di giornalisti, accademici e ricercatori di tutto il mondo hanno sottoscritto la “Westminster Declaration”. Un’iniziativa tesa a denunciare e contrastare la crescente censura che, con il pretesto di combattere la “disinformazione”, limita e in alcuni casi riduce a zero la risonanza mediatica delle opinioni non allineate. «La libertà di parola è la migliore difesa contro la disinformazione», si legge nella dichiarazione, «etichettando alcune posizioni politiche o scientifiche come “disinformazione” la nostra società rischia di rimanere bloccata in falsi paradigmi».

Gli effetti della propaganda – di cui la censura rappresenta il “lato B” – sono difficilmente reversibili perché, come aveva intuito Mark Twain, «è molto più facile ingannare la gente che convincerla di essere stata ingannata». Forse per questo Primo Levi ha tenuto a precisare che «non iniziò con i campi di concentramento e di sterminio. […] Iniziò con i politici che dividevano le persone tra “noi”e “loro”».Del resto, Günther Anders rilevava che «la propaganda nazionalsocialista, di cui siamo stati testimoni e vittime, in realtà non era altro che una produzione di sentimenti, di proporzioni colossali; una produzione che il partito riteneva indispensabile, perché calcolava che le vittime corredate di quei sentimenti avrebbero accettato più facilmente, se non addirittura con entusiasmo, il sistema terroristico con le sue richieste esorbitanti».

Non temo, direttore, che vengano riaperte le camere a gas, né che vengano riaccesi i forni crematori. È vero che la storia tende a ripetersi, ma con Eraclito ricordo che «non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume». Quando “il mostruoso” riemerge dal sonno in cui l’ha sprofondato la vergogna – come mi sembra stia accadendo – il potere che l’ha ridestato non esita ad individuare le strategie più adatte al contesto storico per opprimere – o sopprimere – chi sente e pensa diversamente.

Lo ribadisco: può darsi che la mia sia poco più di una paranoia, ma ho l’impressione che il riaffacciarsi della propaganda più sfrontata, e la crescente polarizzazione della società che ne consegue, siano segnali da non sottovalutare. Mi sembrano sintomi da non prendere con leggerezza. Forse, anche in questo caso, sarebbe meglio prevenire che curare. Prevenire difendendo la libertà di stampa, per esempio.

Per questo la ringrazio di nuovo: per il pluralismo che contraddistingue “Opinione”. Buon lavoro.

 

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Professor Francesco Prandel

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