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LETTERE AL DIRETTORE

SPINELLI (ASSESSORE PAT) * PRIMO MAGGIO: « 2022 LE DIMISSIONI DI GIOVANI E MENO GIOVANI SONO STATE IN ITALIA 2 MILIONI E 198 MILA (+13,8%), PIÙ ANCHE DELL’ULTIMO ANNO PRE-PANDEMICO “

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14.48 - domenica 30 aprile 2023

Gentile direttore Franceschi,

allego quanto oggi pubblicato sul quotidiano “l’Adige“, anche per consentire la visione ai lettori di Opinione.

 

Achille Spinelli – Assessore Pat

 

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Lavoro: cambiano comportamenti ed esigenze.

di Achille Spinelli – Assessore allo sviluppo economico e lavoro della Provincia autonoma di Trento.

La novità degli ultimi due-tre anni è il boom di giovani che lasciano il posto di lavoro. Parliamo di un’accresciuta mobilità che non dipende dagli orientamenti del mercato o dalle decisioni dei datori di lavoro, ma dalla libera volontà del dipendente. Nel 2022 le dimissioni – complessivamente intese, quindi di giovani e meno giovani – sono state in Italia 2 milioni e 198 mila, pari a +13,8% rispetto al 2021, e molto più alte anche rispetto al 2019, ultimo anno pre-pandemico.

Si tratta di un fenomeno che si è cercato di spiegare in tanti modi, ma che in definitiva può essere ricondotto, probabilmente, da un ragione di per sé razionale, la ricerca di condizioni migliori di lavoro e di vita. Semmai è sulla sostanza di queste “condizioni” che bisogna fare una riflessione un po’ più approfondita. Soprattutto se parliamo di Millennial (nati fra l’80 e il 96) e di Generazione Z (nati a partire dal 1997). Fino all’altro ieri avremmo detto che in cima alle esigenze di queste classi di lavoratori vi era la sicurezza del posto di lavoro, il che è comprensibile, in un’era di estenuante precariato. In secondo luogo, la ricerca uno stipendio più elevato, e anche questo è comprensibile, soprattutto in un paese come l’Italia, dove i livelli retributivi sono mediamente inferiori di circa 3000 euro rispetto alla media europea (secondo Eurostatt la retribuzione media è di 15.858 all’anno, nella fascia 18-24 anni), a fronte di un costo della vita che, soprattutto nelle aree urbane, è molto elevato, e a una pressione fiscale inclemente, sia per i lavoratori sia per i datori di lavoro, come noto.

Ma forse dietro a questo boom di dimissioni c’è anche qualcosa di più. Qualcosa a cui potremmo dare un nome difficile da maneggiare, perché poco quantificabile, e però tutt’altro che trascurabile: autorealizzazione. Cerchiamo di mettere in fila questi concetti. Innanzitutto, ci dicono gli esperti, i giovani oggi respingono l’idea di gavette lunghe, sottopagate e mortificanti. Il che non significa che rifiutino tout court un necessario periodo di apprendistato. Ma che chiedono chiarezza (in primo luogo sulla sua durata) e trattamenti comunque dignitosi.

I giovani sembrano dirci inoltre (pur non parlando, beninteso, con un’unica voce, il che rende ancora più complesso decifrare il loro comportamento) che per lavorare bisogna che ne valga la pena. Se il gioco del lavoro serve a malapena a pagare un affitto, se non consente di aprire una nuova stagione della vita, di fare progetti di famiglia, e certamente anche di godere dei vantaggi derivanti, almeno in linea teorica, dal vivere nella cosiddetta società dei consumi, forse non vale la candela.

Ma oggi, ci dicono i sociologi, è anche cambiata l’idea di benessere personale in relazione al lavoro. Acquistano importanza fattori come il bilanciamento fra tempo di lavoro e tempo di vita, le relazioni che si instaurano nei luoghi di lavoro, la possibilità di esprimere se stessi o di coltivare gli interessi che hanno caratterizzato il percorso di studi, i trattamenti relativi a maternità/paternità, la possibilità di accedere allo smart working e così via.

Tutto questo ci porta a dire che il fenomeno non può essere liquidato semplicisticamente con l’affermazione “i giovani non hanno più voglia di lavorare”, affermazione che le vecchie generazioni hanno più o meno sempre fatto propria, anche in passato. Né è corretto pensare che il fenomeno riguardi solo i giovani italiani. “Big Quit” o “Great Resignation” sono termini nati in realtà negli Stati Uniti, dove la “velocità” delle dimissioni registrata nel 2021 è stata persino maggiore rispetto all’Europa e all’Italia (ma le condizioni di quel mercato del lavoro, anche questo va detto sono diverse dalle nostre).

In ogni caso, il fenomeno del boom delle dimissioni in Italia si accompagna ad esempio ad una crescita esponenziale nella ricerca di lavoro all’estero, anche da parte di giovani qualificati. Non siamo quindi in presenza di un “semplice” rifiuto del lavoro. Ci confrontiamo invece con una generazione di giovani che chiede al lavoro maggiore qualità, in ordine a tutta una serie di parametri: equità, inclusione, valorizzazione delle competenze, ma anche salute, benessere, tempo libero e così via.

Si tratta di una sfida importante, che non possiamo ignorare, tanto più in un territorio come il nostro, che investe risorse considerevoli sia nell’alta formazione – universitaria e post-universitaria – sia nella formazione professionale, di cui è sempre stata riconosciuta l’elevata qualità. Gli strumenti e le progettualità che abbiamo messo in campo in questi anni in favore delle nuove leve del mercato del lavoro sono molte: Garanzia Giovani, apprendistato, tirocini, orientamento al lavoro, percorsi di auto imprenditorialità e per la creazione di start up, sostegno al reddito di chi cerca un impiego, staffetta generazionale, alternanza scuola-lavoro e così via.

Di fronte a comportamenti ed esigenze che cambiano, però, dobbiamo essere pronti non solo a ritarare i nostri servizi e i nostri percorsi per l’occupazione, ma a concentrarci anche di più sul mantenimento degli occupati in seno al mondo del lavoro provinciale, evitando per quanto possibile dispersioni, abbandoni e “fughe di cervelli”, così come disparità nell’accesso al lavoro o nei trattamenti fra uomini e donne. Su queste sfide si gioca una parte importante del nostro futuro. E la Provincia autonoma di Trento si sta attrezzando per affrontare questo nostro futuro.

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