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ITALIA NOSTRA NAZIONALE * TERRITORI: « CENTRI STORICI DA SALVARE, I TURBAMENTI DEGLI ASSESSORI ALL’URBANISTICA »

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19.36 - venerdì 5 gennaio 2024

(Il testo seguente è tratto integralmente dalla nota stampa inviata all’Agenzia Opinione) –

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I turbamenti degli assessori all’urbanistica. L’assessore all’urbanistica della Provincia autonoma di Trento ha recentemente rilasciato un’intervista a un quotidiano della sua città. L’argomento affrontato è l’abbandono dei centri storici. Le considerazioni hanno suscitato un dibattito che, alla fine, vorrebbe dare titolo a un improvvido revisionismo della cultura nazionale del Recupero, frutto di un’insuperata epoca di esperienze e d’importanti considerazioni sul valore dei nostri insediamenti storici.

A Roma, intanto, da alcuni mesi commissioni, assessori e imprenditori discutono come, modificando le normative urbanistiche, si possa facilmente mettere mano a una trasformazione che cambi il “volto della città”. Questo proposito, più volte affermato, suona molto temerario alla luce dei risultati di grande confusione raggiunti in questi ultimi mesi. Le uniche immagini di rinnovamento sono, infatti, quelle di un imponente caos. Le trasformazioni sono di scarsa qualità: strade asfaltate al posto dei selciati coi marciapiedi occupati dai ristoratori, progetti di micro-lottizzazioni, casermoni abitativi, centri commerciali vorticosi, ristrutturazioni a basso costo, metropolitane sovraccaricate di funzioni improprie, mobilità bloccata. Tutta questa energia farà della città del prossimo mezzo secolo, considerata la cancellazione di pianificazioni organiche, una matassa senza capo né coda, opponendo al tessuto della “grande bellezza” la bruttezza di una tecnologia edilizia prodotta dalla decadenza industriale.

Quanto riferito, poiché scardina alcuni caposaldi della nostra concezione dei centri e delle città storiche, disciplina su cui si è fondata parte significativa della civiltà e della cultura urbana dell’epoca moderna, è degno di qualche considerazione. Entrambi i fenomeni – i borghi trentini, archetipo di un’Italia in sparizione e la grande crisi metropolitana – per quanto diversi possano apparire nelle dimensioni, sono aspetti dello stesso problema. Quale? L’insostenibilità di una “degenerante” trasformazione, oggi fatta passare come innovativa e strumentalmente ecologica. La sostenibilità necessita, invece, di buone pratiche del quotidiano che si aggiungano a una coscienza del muoversi su tempi storici passati e dei diritti delle future generazioni; tempi di lungo periodo.

Le idee dell’assessore trentino, che in alcuni tratti appaiono francamente sconsiderate, avrebbero origine da ragioni ben precise: lo spopolamento e l’abbandono dei borghi. Problema che, com’è noto, affligge per intero l’amata penisola a qualsivoglia latitudine, longitudine e altitudine; tema – affrontato da moltissimi studi d’antropologia urbana, di sociologia dell’età post-industriale e da saggi ben corposi di economia degli insediamenti umani – che sembra si voglia ricondurre all’inadeguata efficienza tecnologica degli edifici. Le vecchie case – per l’assessore – non corrisponderebbero più alle esigenze attuali: sono inutilmente voluminose, nascono una accanto all’altra, non hanno balconi e le strade sulle quali si affacciano sono irregolari. Questo stato di arretratezza, per colpa delle leggi di tutela, avrebbe portato allo spopolamento e alla perdita del valore immobiliare.

La brevissima analisi è la sintesi di un orientamento che pare diffondersi tra le amministrazioni delle città italiane, le quali – spesso per non ammettere l’incapacità di una risposta seria a problemi strutturali e complessi – dirimono la questione riducendola al mancato impiego tecnologico. A questo punto, la retorica colpisce inesorabilmente l’immaginario collettivo: “dobbiamo passare dalla museificazione (ma quale e dove mai è stata?) alla rigenerazione urbana”. L’asserzione si fonda, dunque, sulla convinzione che l’unica possibile risposta sia l’abbattimento dell’esistente e la nuova costruzione al suo posto di lottizzazioni urbane; di una nuova città figlia della “demoricostruzione” (demolizione-ricostruzione). Cioè, lasciare gli edifici monumentali e tutti quelli riconosciuti di un certo pregio architettonico tra le fabbriche e le strade di un sistema contemporaneo: come testimoni di un mondo passato e finito, con la sola accidentale funzione d’un vecchio quadro appeso in un salotto.

Sembra questa, però, la chiave di un disastro. Una strategia distruttiva per arrivare a operazioni immobiliari di basso costo e alto risultato commerciale nelle aree di maggior valore, le quali si omologherebbero alle periferie decadendo quindi dalle categorie caratterizzate a quelle “ordinarie”. Straordinarie rimarrebbero quelle che riuscissero a conservare l’originalità del tessuto edilizio, l’insieme suggestivo e qualitativo della loro aggregazione densa di strade e piazze percorse da molte civiltà; risultato di lunghe vicende civiche: ciò che abbiamo imparato a distinguere come “città storica”.

Non tutto questo patrimonio è oggi così definito; soprattutto là dove sono mancate delle buone politiche del Recupero urbano. Ed è certamente vero che, in molti casi, abbandono e fatiscenza sono gli aspetti più evidenti. La risposta a questa diffusa criticità non può, però, essere la cancellazione e la sostituzione con casette di materiale sintetico. Che si chiamino palazzine d’autoconsumo o d’efficientamento energetico, è lessico fallibile molto oltre l’effettivo risultato ottenuto. La visione di queste pratiche non conosce l’enorme efficacia che mostra di per sé l’edilizia storica antecedente all’impiego del calcestruzzo armato.

Che ci fosse un cambiamento di “sentimento” sulla questione e nei confronti della bellezza dei “borghi d’Italia” era nell’aria di questi ultimi anni. Amministrazioni normalmente dotate, come quella di Roma, hanno deciso, ispirate dai professionisti più creativi e con egual verbum facilitas, che è ora di cambiare. È ora di smontare e abbattere il bel tessuto di continuità di una Roma per questo famosa nel mondo, per far sorgere ogni tanto qualche palazzina a tre piani, bianca come uno di quei cadaveri edilizi di periferia; immobili avvolti di polistirolo e tetti fotovoltaici arroventati coi balconcini vetrati di stile hi-tech.

A prescindere, dunque, da un’ondeggiante linea politica di destra o di sinistra, pare mutare l’ordine del nuovo interesse verso le afflizioni degli insediamenti storici; sofferenza che vorrebbe giustificare, forse, un nuovo accesso alla già enorme cura iniettata col denaro preso a debito dallo Stato per pagare il superbonus, costato quest’anno agli italiani poco meno di 150 miliardi di euro. Molto ci sarebbe da fare in questo caso: il miglioramento e l’efficienza sismica; il riordino delle periferie sottoposte a un continuo allargamento della copertura di suolo che accresce sempre più il fenomeno dei “disastri” naturali e gli stravolgimenti geofisici; nuove politiche di demografia e ripopolamento. Non certo dare un “volto” sintetico alle nostre città.

Le nuove tecnologie sono spesso complessivamente più energivore e meno efficaci degli elementi costruttivi e dei sistemi edilizi tradizionali, e basterebbe studiarli senza la pretesa di conoscerli con una semplicistica valutazione. Schiavi dei flussi tecnologici che facilmente ci dominano, al regredire delle nostre intelligenze ormai inutili, non siamo più in grado d’indagare le diverse ragioni delle cose, abbandonando la capacità riflessiva per le orientate finzioni profilate dal sistema commerciale che sovrasta qualsiasi competenza.

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Michele Campisi (segretario generale Italia Nostra)

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