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LETTERE AL DIRETTORE

WALTER PRUNER * PATT: « L’ASFISSIA DEL DIBATTITO HA PROVOCATO L’ESPLOSIONE DI QUESTI GIORNI, CHE ALLUNGA LE FILE DEI FUORIUSCITI »

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12.02 - giovedì 27 ottobre 2022

Ogni volta che scatta il delirio di onnipotenza, quando cioè la creatura prende il posto del creatore, si produce un processo di deificazione, ovvero il volere essere quello che l’uomo non può appunto essere: Dio. L’umano non può aspirare ad essere Dio e quando questo accade, avviene la vera perversione che caratterizza l’uomo, il vero peccato mortale, quello appunto di voler essere Dio. Un delirio di onnipotenza che abbiamo oggi nel cuore dell’Europa in forma evidente: la potenza atomica, la minaccia dell’ uso dell’ordigno atomico è esattamente una incarnazione del desiderio di essere Dio. Il possesso della bomba atomica, l’idea di essere padrone del mondo, della vita e della morte, di poter decidere le sorti del genere umano anche a rischio concreto di mettere a repentaglio la propria. Questo secondo la Bibbia è il vero peccato mortale, e non è un testo di poco conto, oltre ad essere “solo” il testo più letto al mondo.

Sta catturando la mia attenzione, e da un po’ di tempo, la declinazione in chiave contemporanea di questo processo di deificazione circolante a vari livelli. Vorrei soffermarmi su quello politico. Il piano nazionale ha raggiunto in questi giorni l’acme nelle esilaranti, se non fossero autografe, dichiarazioni di statismo internazionale in un derby alcoolico tra vodka e lambrusco. Una vicenda che oltre allo scherno internazionale di un’ intera nazione, e dei militanti più illuminati del suo stesso partito, ha messo alla berlina il suo fondatore, che premendo il famoso bottone rosso della incontinenza politica, pur a bassa intensità, ha posto se stesso a rischio contagio risultandone oltremodo positivo.

Il fatto pone l’accento sulla fine vita politica e di contro sulla capacità auto-generativa di forze fresche che vanno valorizzate e non considerate concorrenti; nella crisi evidente del sistema partito in senso lato, e del circuito partecipativo, in una delle fasi di maggior criticità che si ricordi dal dopoguerra, ogni atto specifico di nascondimento o di mimetizzazione equivale ad un gesto di diserzione. Se c’è dunque un tempo per valorizzare, non c’è quello per emarginare, se c’è un momento per decidere non c’è un momento per latitare, se c’è un momento per condividere non c’è un momento per imporre, se c’è un momento per aprire non c’è un momento per omologare, se c’è un momento per l’ideale non c’è tempo per l’interesse. Quando una forza politica sa addomesticare questi passaggi, non certo evitandoli, passa dall’ embrione alla fase matura, valutando detta fase interna ad un processo di naturale ciclicità che è nelle cose del mondo, e che se governato evita bradisismi fuori controllo.

Il livello di guardia va continuamente monitorato attraverso la lettura di segnali che mai sono unici ed improvvisi e mai vanno sottovalutati. Coglierne gli aspetti di criticità prima della tracimazione è uno dei compiti più impegnativi quanto importanti. Quando la qualità dei talenti di partito si staglia per comprovata capacità: amministratori, semplici militanti, simpatizzanti, ma la stessa viene seppellita, si perpetua un gesto, il gesto più grave, quello del seppellimento imperdonabile del suo talento politico ed il disseppellimento delle sue scorie. Il processo di deificazione è un processo mortale ad ogni latitudine politica: esso è sostenuto ed alimentato spesso da cortigianeria interessata e lassismo critico; questa miscela esplosiva induce il conducente a ritenersi davvero infallibile ed inarrivabile, fintanto che il fragore dello schianto non sveglia la comitiva dal torpore, spesso ad automezzo ormai ribaltato.

Le resistenze al cambiamento generazionale poi, e l’arroccamento conservativo interno ai partiti pongono una questione di autentico blocco riformatore al loro interno a livello di classe dirigente. È inimmaginabile, sarebbe oltremodo sciocco, ritenere che il tempo del tramonto coincida con la fine, anzi: è solo un ruolo altro, che si dischiude, per chi lo vuole cogliere, quello della testimonianza formativa, che restituisce nella sua gratuita nobiltà, quel senso di generosità politica che ne conferisce autentica credibilità. Presidenti onorari di lungo corso sono lì a testimoniarlo anche in questi giorni.

In casa autonomista, grande indiziata di inerzia da alcuni, di tatticismo arcaico da altri, di equilibrismo funzionale a seconda delle posizioni, si è sviluppato un eccesso di tolleranza che ha consentito ad alcuni improbabili accelerate? O l’asfissia del dibattito ha provocato l’esplosione di questi giorni che allunga le file dei fuoriusciti? Sono domande cui la direzione autonomista non può sbagliare risposte, la pena è un rischio letale di sopravvivenza.

La cosiddetta unità autonomista, se concepita per annessione, sposta solo i tempi di un’ ennesima diaspora perché non risolve il tema dell’ eterno equivoco: la equivalenza tra unità e unanimità. La unanimità compressa forzosamente all’interno di un concetto di non dialogante unità, alla lunga deflagra. E per concorrere acché ciò non replichi occorre che una garanzia statutaria in tutela delle minoranze, indispensabile anche se non sufficiente, si frapponga alla suicidaria alternativa dell’allontanamento per fiacchezza, fuga indotta, denigrazione, espulsione, che ciclicamente hanno portato e portano alla collocazione fuori di chi è troppo a destra, di chi è troppo a sinistra, di chi è insomma sempre di troppo, senza soluzione di continuità.

Una narrazione che obbliga ad una franca riflessione in merito a quella che già oggi porta a dodici mesi dal voto ad un antagonismo fatto solo al momento di già cinque sigle autonomiste ai blocchi di partenza, (Patt, Autonomisti popolari, lista Dallapiccola-Demagri, Trentino Autonomista libero, Risveglio autonomista ). La narrazione autonomista questo sta mandando in onda purtroppo, riconducendo a delle valutazioni politiche che non devono essere accusatorie o auto-assolutorie, non è rilevante, ma semplicemente lucide e necessarie. Dovendo sì, partire, dall’attuale amaro dato del punto più basso di rappresentanza consiliare mai toccato nella storia autonomista, un consigliere, ma dalla consapevolezza di potenzialità inespresse da cui rilanciare.

Altro tema. È così prioritario lo strabico rastrellamento algebrico, ancor prima che ideale, di obbedienti, altalenanti sigle governative, in attesa politica di validazione VAR? O non è invece urgente l’assunzione di una proposta a 360 gradi, coraggiosa ed autorevole, che guidi e non rincorra ambiziosi ed inclusivi obiettivi collettivi di indirizzo?

A senso cioè, pur dotati di un mezzo a pieno serbatoio, con maestranze collaudate a bordo, lasciarlo parcheggiato a lato di una tenuta a fuoco, in attesa di una primavera dalla forte incognita carestia? Ed anche qui diventa decisivo capire quale sarà la scelta tra quella filogovernativa con l’opzione minimalista di potere, e quella costruttiva, non timorosa, aperta, capace di dissotterrare i talenti autonomisti disponibili e non solo di partito, per metterli in campo quale alternativa a modelli archeologici di risposta politica, allocata su improbabili e fino ad ora sconosciute sponde di anaffettivo autonomismo?

Credo sia un tema anche questo. La unità autonomista non può riconoscersi dunque nella sola dignità di ingresso, di omologazione e quindi di annessione, ma nella condivisione dialettica di posizioni diverse reciprocamente rispettate: in caso contrario si tratterebbe di pura cooptazione di forze esogene e semplice sommatoria algebrica. Non funzionerebbe, ha mai funzionato e mai funzionerà. Vorrebbe dire mandare in onda la replica di un film in bianco e nero dai contenuti già visti, ma soprattutto patiti.

 

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Walter Pruner

Trento

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