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LETTERE AL DIRETTORE

PROF. GIACOMO BUONCOMPAGNI * GUERRA: « SI DIFENDE ORMAI IL CONFINE UCRAINO, NON IL POPOLO DATO CHE LE FAMIGLIE DIVISE E DISTRUTTE SONO GIÀ FUORI DAL PAESE »

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11.27 - sabato 12 marzo 2022

Perché la resa può essere etica.  Questa riflessione non vuole assolutamente essere l’inizio di una “battaglia” intellettuale o una contro-risposta polemica al recente articolo dell’ex-senatore Luigi Manconi, autore di un pezzo pubblicato sul Corriere della Sera, dal titolo “Perché la resistenza armata è etica”, l’8 marzo scorso.

Tutt’altro. È un umile tentativo di confrontarsi e analizzare in maniera critica la complessa situazione socio-politica generata da questa guerra (in)aspettata. D’altronde lo ammetto, perderei di fronte all’esperienza e la lucidità di Manconi. Dunque, mi permetto solamente di esporre criticamente il mio punto di vista. L’azione di far sopravvivere un popolo, già in evidente svantaggio, rifornendolo di materiale bellico, difficilmente può essere definito “etico”.

Qual è dunque l’alternativa?

La resa. Non quella incondizionata, ma argomentata, seguita cioè seguita da una nuova formula negoziale (trattato) supportata da tutta la comunità internazionale così da evitare l’ulteriore sacrificio di adulti e giovani ucraini imbottiti di celebrità mediatica del suo eroe-presidente. I social media sono sì il nuovo campo di battaglia, ma non è facile tenere il controllo di sé e delle proprie comunicazioni. Quindi, l’eccesso di mediazione può generare l’effetto inverso anche nella politica e nella diplomazia. Può ri-trasformare il presidente-eroe in un puro attore sulla scena mediale, e la sua comunicazione, una parte recitata. Il rischio di fornire “eticamente” le armi aiuta a difendere i confini, ma non i popoli e le loro identità culturali. Perfino Facebook adotta la politica della contro-narrazione violenta, permettendo di insultare gli utenti di scrivere post contro la Russia nel contesto dell’invasione dell’Ucraina. Sono stati autorizzati messaggi in cui si inneggia alla morte di Vladimir Putin e Alexander Lukashenko.

Una terra può essere riconquistata, un confine può essere ri-tracciato. La vita dei bambini e la serenità di una famiglia, no. Oggi il sacrificio, la gloria, l’essere “eroi”, sono tutti elementi simbolici iscrivibili nella dimensione umana, ma che da un punto di vista storico-culturale non hanno lo stesso valore che avevano all’epoca della civiltà greco-romana e prima ancora. Morire in guerra significava essere ricordati in eterno, essere celebrati per settimane. Il sacrificio generava una memoria pubblica dell’individuo, condivisa all’interno della tribù-comunità. Morire per l’Ucraina, in Ucraina, significa nella situazione attuale, alimentare l’odio sociale, lo spettacolo mediatico, la polarizzazione, la distorsione pubblica di termini “sacri”, come la parola “etica”. Le emozioni giocano brutti scherzi nel teatro mediatico e nelle crisi.

La razionalità è la via d’uscita, così come le argomentazioni credibili e possibili sono i veri ponti diplomatici. Non le sanzioni. Queste funzionano da una parte, falliscono dall’altra. Le società moderne vivono oggi in uno Stato di interdipendenza. Per il sociologo Bauman le nostre sono società entropiche che creano cioè i fattori delle loro stesse crisi, dove il globale esplode nel locale con effetti dirompenti. Gli effetti di una guerra oggi modificano radicalmente l’infra-ordinario, ogni parte della nostra vita quotidiana che diventa in fretta uno scenario stra-ordinario perenne, passando dall’ emergenza alla crisi, fino al cambiamento radicale.

I costi sociali ed economici riflettono l’interconnessione globale. Anche la morte subisce l’interconnessione. Si muore colpiti da una bomba e dalla mancanza di cibo e lavoro allo stesso modo e tempo in contesti lontani geograficamente, a causa di uno stesso evento globale.

La fornitura di armi alimenta la morte, la rabbia e quello scenario stra-ordinario, soprattutto quando la guerra è già persa, e la situazione è ìmpari fin dal principio. Si difende ormai il confine ucraino, non il popolo. Le famiglie sono già fuori dal paese, divise, distrutte, con mariti e figli maggiorenni fatti a pezzi dentro un frame narrativo che li descrivi come eroi resistenti. Dove sta esattamente l’etica? Nell’illusione di una finta resistenza armata?

Se c’è etica, allora assomiglia molto a quella che Weber definiva “etica dei principi”, un’etica apolitica, come è testimoniato dal cristiano che agisce seguendo i suoi princìpi e senza chiedersi se il suo agire può davvero migliorare il mondo. Dietro l’armata c’è l’Europa tutta. Sempre incerta, e ancora una volta impreparata alla crisi. Discute, prende tempo, mentre si espandono crisi economica e disuguaglianza, dopo due anni di pandemia.

Le negoziazioni mirano a stabilire una situazione di equilibrio tra le parti. Dunque, è davvero paradossale negoziare in uno scenario di guerra asimmetrica in corso da settimane.

La situazione è in bilico, tutto è destinato a mutare. L’entusiasmo della solidarietà europea, che abbiamo conosciuto anche durante le prime fasi di pandemia. Accade sempre così, di fronte ad ogni emergenza, che si tratti di migrazioni incontrollate, di pandemia e ora di guerra. Abbiamo due scenari, due tipi di comportamento.

Prima registriamo sorpresa, stupore, eleggiamo degli “eroi”, vediamo il massimo della solidarietà mondiale che si estende oltre confine guidata da forti flussi emotivi e una apparente lucidità. Successivamente quando si riacquista la razionalità, e i risultati finora ottenuti risultano parziali, ci si ritira piano piano nel proprio guscio accusando chiunque la pensi diversamente o provi a mettere in gioco nuove soluzioni alternative. L’eroe diventa il nuovo nemico, l’aiuto verso l’Altro inizia a costare troppo, da tutti i punti di vista. Quando collasseranno le economie dei paesi solidali considerata anche la dipendenza di molti paesi europei rispetto alle risorse primarie in mano russa, l’empatia sarà travolta dall’insicurezza e dalla paura.

Dunque, tornando al conflitto Ucraina-Russia e alla risposta con le armi, ci sono le argomentazioni come supporto alle vittime. C’è la possibilità, dunque, di valutare la resa e capire a cosa questa possa realmente portare in un mondo inter-dipendente e inter-connesso da un punto di vista geo-politico, economico e culture. Questo è il punto, serve prevedere socialmente le nostre azioni. Fare comprendere a un politico cieco, Putin, che è il mondo è radicalmente cambiato e che il suo progetto di ricostruire la Madre Russia è praticamente impossibile. Perché nessuno Stato può permettersi di isolarsi, ma bisogno di relazionarsi con altri. La pandemia non ci ha insegnato nulla.

Tale consapevolezza, che genererebbe sicuramente un passo avanti nel processo negoziale, potrebbe essere forse questa definita un’azione etica. Al contrario dell’etica dei principi, questa è un tipo di azione che assomiglia molto all’altra etica di cui Weber parlava, quella della responsabilità. L’etica della responsabilità è indissolubilmente connessa alla politica, proprio perché non perde mai di vista (e anzi le assume come guida) le conseguenze pratiche dell’agire dentro la comunità.

L’etica della responsabilità si esprime, quindi, nella vita sociale, considerando le possibili conseguenze delle proprie azioni sulla base del principio dell’«agire razionale rispetto allo scopo», corrisponde all’atteggiamento di colui che vuole migliorare il bene comune e di conseguenza nel suo agire è preoccupato dell’impatto che ciò che fa avrà su di esso. Il senso di responsabilità spinge, in altre parole, a prendere in considerazione la totalità delle prevedibili conseguenze e a scegliere in funzione di quelle ritenute migliori o meno peggiori. Chi si direziona in questa prospettiva ritiene che il valore di un’azione deve essere cercato non nell’azione in sé, fine a sé stessa, ma nei suoi risultati. Questo dovrebbe essere la direzione della politica europea.

 

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Giacomo Buoncompagni

Ricercatore Lumsa e docente di antropologia giuridica e culturale Unimc

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