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LETTERE AL DIRETTORE

MARCANTONI (LETTERA A QUOTIDIANO “TRENTINO”) * CANDIDATO PRESIDENTE PAT: « DOVRÀ AVERE ESPERIENZA PER NON NAUFRAGARE IN UN MARE NAZIONALE SEMPRE PIÙ TEMPESTOSO »

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09.39 - mercoledì 25 gennaio 2023

Rinascimento d’ Autonomia, altro che allineamento.

L’Autonomia del Trentino, come ogni altra Autonomia forte e radicata, non è un totem a cui rendere omaggio per antica tradizione, ma è una Istituzione viva, carica di responsabilità per chi ne regge le sorti, e di effetti pratici per chi, da queste sorti, ne trae vantaggi o svantaggi. Una Istituzione che al Trentino ha consentito di raggiungere risultati straordinari, portando una terra marginale, come eravamo solo mezzo secolo fa, ai primi posti dello sviluppo nazionale. Sono dati noti. Talmente noti che si rischia di ritenere che i successi ottenuti dal Trentino, secondi solo a quelli dell’Alto Adige, siano scontati, una sorta di “evento naturale ed immutabile” dovuto ad un’eredità, l’Autonomia appunto, di cui non solo abbiamo scordato le origini, ma ignoriamo anche i vantaggi che, almeno fino ad oggi, ci ha assicurato.

Quindi, per essere chiari, l’Autonomia non è uno strumento valido di per sé: lo è, se gestito bene; non lo è, se gestito male. Le esperienze estremamente negative delle Regioni speciali del sud sono in questo senso esemplari. Ma chiarificatore è anche il fatto che, negli ultimi cinquant’anni, il Trentino è cresciuto quattro volte di più della vicina, e anch’essa speciale, Regione Friuli Venezia Giulia.
Ed allora, cosa fa davvero la differenza? Non la consistente quantità di competenze, di cui, ad esempio, la Sicilia è analogamente dotata, ma con risultati molto lontani. La differenza la fa la qualità della classe dirigente, pubblica in particolare, ma anche privata. Poi, non di minore rilievo, aver dato piena espressione a tre caratteristiche di tutte le Autonomie, ma che quella trentina ha espresso con puntuale compiutezza.

La prima caratteristica è aver dato valore, reale e simbolico, alla filiera corta dei processi decisionali, tipica dell’Autonomia che, per affrontare e risolvere i problemi, non obbliga, come accade in altre realtà nazionali, ad interloquire con la lontana Roma. Per risolvere le nostre questioni, la possibilità di rivolgersi ai poteri locali, alla Provincia in particolare, è divenuta così consueta da essere considerata naturale, scontata.

La seconda è l’alto grado di controllo sociale sull’operato delle Istituzioni dell’Autonomia. I nostri pubblici decisori trovano “sotto casa” il riscontro diretto del proprio operato, con le conseguenze del caso in termini di consenso e di pubblica opinione.

La terza caratteristica è legata al fatto che le politiche attivate, dall’istruzione alla cultura, dalla sanità al sociale, dall’economia al lavoro, dagli enti locali alle proprietà collettive, non sono state il prodotto dell’indistinto nazionale, ma di ricette su misura, disegnate sui reali bisogni o sulle concrete opportunità di crescita dei nostri territori.

Dai primi anni Duemila la capacità di crescita del Trentino si è progressivamente allentata fino a posizionarsi, in termini di performance, nei fanalini di coda del Nordest italiano. Intendiamoci, il capitale economico e sociale fino ad oggi accumulato ci mantiene ancora a livelli altissimi, a cominciare dal reddito medio pro capite per il quale, a livello nazionale, siamo superati solo da Alto Adige e Lombardia. E ancora migliore è la situazione in campi particolarmente significativi come la presenza delle donne nel lavoro, le dotazioni di asili nido, i posti in casa di riposo, il basso tasso di abbandono scolastico e in molti altri indicatori di qualità della vita nei quali siamo ai massimi livelli.

Dati positivi a parte, il problema che oggi si pone è quello di capire se la nostra capacità propulsiva sia esaurita e, di conseguenza, se confluire nell’indistinto nazionale rappresenti un destino ormai inevitabile, con l’aggravante delle piccole dimensioni. Oppure, se ci sia ancora uno spiraglio di orgoglio, di senso di appartenenza, di responsabilità collettiva, di qualità dell’essere e del fare che prefigurino un nuovo rinascimento autonomista. Un rinascimento inteso come un pregiato e guadagnato “divenire collettivo”, non come un appassionato, ma inefficace, richiamo ad un “passato migliore”.

Nella situazione in cui ci troviamo, profondamente e intimamente affaticata, porre con chiarezza questo quesito non è un tabù, o una mera provocazione. Se il re è nudo, o quasi, è necessario dirlo, non con spirito disfattista, ma con la ferma volontà di riemergere dalla nebbia e non tenere, come gli struzzi, la testa sotto la sabbia.

Nell’editoriale di domenica scorsa il direttore Paolo Mantovan ha messo in evidenza il rischio dell’allineamento con il nuovo potere romano – ma anche se fosse quello precedente nulla cambierebbe – stigmatizzandolo come il grande pericolo da evitare, pena l’autoconsegna all’irrilevanza. Un pericolo poco sentito nelle file della politica trentina: nei partiti nazionali di destra, in quelli di sinistra e, con spirito diverso, anche nella frantumazione degli autonomisti.

Personalmente, ritengo che quello posto da Mantovan come principale requisito nella scelta del futuro candidato Presidente – cioè che sia in grado di esprimere una chiara vocazione autonomista – sia il primo terreno di confronto su cui la politica trentina dovrà battere un colpo. Nei fatti, cioè nelle scelte concrete, e non solo nelle enunciazioni. Una vocazione autonomista non solo animata di passione e di buone intenzioni, ma anche sostenuta dalle capacità e dalle esperienze indispensabili per non naufragare in un mare nazionale sempre più tempestoso. Una vocazione autonomista in senso vero, che non concepisca un potere dall’alto che si imponga sulle periferie, geografiche e sociali, ma che accetti la sfida di una comunità che si fa protagonista dei propri destini.

Ed è la comunità – fatta non solo di politici, ma anche di pubbliche istituzioni, di soggetti della rappresentanza sociale e economica, di intellettuali e di singoli cittadini – che deve cogliere l’entità della posta in gioco per tradurla in adeguate responsabilità e qualità di autogoverno. Un’operazione di rifondazione culturale e tecnica che, alla fine, non è poi tanto nuova, se consideriamo che nel 1948, in sede di Assemblea Costituente, Alcide De Gasperi dichiarò: “…permettete che vi dica che le autonomie si salveranno, matureranno, resisteranno, solo ad una condizione: che dimostrino di essere migliori della burocrazia statale, migliori del sistema accentrato statale, migliori soprattutto per quanto riguarda le spese”.

 

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Mauro Marcantoni

Trento

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