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LETTERE AL DIRETTORE

FABIO PIPINATO * GENOCIDIO IN RUANDA: « 30 ANNI FA LA STRAGE, IO ERO PRESENTE »

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10.37 - domenica 7 aprile 2024

Gentile direttore Franceschi,

 

con oggi fanno 30 anni dal genocidio in Ruanda, laddove ove ero presente. Invio uno scritto tratto da Vita.it.

*

Rwanda, 7 aprile 1994.
Ore 6.00 del mattino. Sveglia. Esco dalla porta di casa. Silenzio. Non si muove foglia. I primi raggi, deboli illuminano l’acqua del lago. Ferma. Non vi sono pescatori, oggi. Le canne di papiro non ondeggiano. Non cantano più gli uccelli.
Mi reco alla fonte. Sarà o no una buona giornata?
Tutto regolare. L’impianto funziona a meraviglia. Esce acqua in abbondanza. Buona nuova. I rifugiati burundesi, siti nei vicini campi, dall’ottobre dell’anno precedente, avranno anche oggi una razione potabile.
Carico le cisterne dei camion di color bluastro. Lo stesso colore delle tende di plastica che l’Alto Commissariato per i Rifugiati ha da poco distribuito per ricoprire dalla pioggia le capanne fatte intrecciando poca ramaglia. La stessa plastic ala ritroverai, in abbondanza, nel mercato nero. Venduta per sopravvivere un giorno in più.
Vorrei farmi aiutare per il carico d’acqua dagli zamu (guardiani notturni) che stanno confabulando tra loro e non danno retta alla mia richiesta d’aiuto.
Mi trovo in bilico sopra il cassone del camion con una pompa che spara a pressione incontrollata e loro stanno ancora lì impalati con una radiolina gracchiante.
Alzo la voce. Si avvicinano. Mi guarda Joseph, il più anziano e con un francese impastato di Kinyarwanda mi dice: – “Non è bene andare dai profughi, oggi!”
Rimango impietrito! E’ successo qualcosa di grave. La radiolina trasmette musica classica e proclami in lingua locale che non comprendo.

M’era capitato due mesi prima di disattendere i loro consigli e mi sono trovato nei guai. Dicevano: – “Non è bene andare a Kigali, oggi!” Ed io ho preso l’auto e come un pivello mi sono infilato dentro una confusione tale che sembrava di stare a Sarajevo, nei giorni dell’assedio. La radio trasmetteva musica classica e proclami in Kinyarwanda.
Ci son voluti tre giorni di paura, un referente della FOCSIV incosciente ed i caschi blu belgi per uscire da quel girone. Con quest’ultimi ho condiviso la fuga dalle granate ed i spaghetti stracotti immersi nei sughi in scatola. In seguito sono stati “promossi” guardie del corpo del Primo Ministro – donna e politico formidabile. Dopo il 6 aprile sono stati passati tutti all’arma bianca; uno ad uno. Dall’ultimo al Primo Ministro. Avevano implorato a New York il permesso di legittima difesa. Negato. Con loro è morta l’autorità sovranazionale. Ma non è servito a nulla, i governi hanno permesso un anno dopo la stessa ecatombe. A Srebrenica in Bosnia, nel cuore dell’Europa.

– Cos’è successo? Chiedo agli zamu.
– Ieri sera hanno ucciso il Presidente Habyarimana.
Sento che sta per crollare la piramide. Chiudo l’acqua. Mi siedo.

E’ capitato ancora. Nei Grandi Laghi, quando muore un pezzo grosso, iniziano gli scontri tribali. Si colpisce ovunque, senza ragione. Anzi, con la massima ragione. E’ poi l’esercito, unica agenzia che da occupazione in Rwanda, a riportare l’ordine; dove, quando e nella misura gli viene comandato.
Ma stavolta non si trattava di un pezzo grosso ma del pezzo grosso.

Corro in casa a recuperare la mia radio. France International, tra le news, conferma riguardo l’uccisione del Presidente del Rwanda ed aggiunge che, assieme, è stato ucciso anche il Presidente del Burundi, entrambi di ritorno da Arusha – Tanzania ove hanno svolto “accordi di pace”, più una decina di membri dell’equipaggio e tre ufficiali francesi.
L’amico Giandomenico Colonna è già al telefono: console, amici a Kigali, l’ ONG “amici dei popoli” e le ONG in Italia. L’equipe medica di “Médicins sans Vacances” sono all’oscuro di tutto e tranquillamente stan facendo colazione nel refettorio comune; a breve apriranno la sala operatoria. In lista vi sono 10 bambini malati di polio da operare che sono nel contempo eccitati e con una tale fifa d’entrare nella sala verde.
Per fortuna ci sono loro. Il lavoro quotidiano senza il quale s’impazzisce. La microemergenza che ti fa deviare lo sguardo dalla catastrofe. Parlavamo, d’improvviso, due linguaggi: l’immediato ed il cosa accadrà. L’aldiquà e l’aldilà del nostro progetto.
Dalla cartella clinica: allungamento del tendine d’Achille. Mentre il chirurgo incideva il piccolo di 8 anni con la massima cura ed attenzione per ridargli l’orgoglio di stare in piedi il fratello del bambino, a casa, cadeva a terra squartato come centinaia di migliaia di bambini, dal machete… Abitiamo questa contraddizione con rabbia, dolore e lucidità.

Non potendo andare ai campi profughi, che stavano per diventare luoghi di reclutamento per compiere ciò che è poi accaduto, aiuto mia moglie Paola a preparare altri bambini per la sala operatoria. Serve sterilità ed acqua potabile in abbondanza.
A mezzodì arrivano notizie preoccupanti da Kigali: sono iniziati gli scontri cruenti tra le forze del Fronte Patriottico Rwandese – FPR e l’esercito regolare. Già dal pomeriggio vedo un via vai di camion militari e noto anche qualche soldato francese in mimetica. In Europa, i TG ne parlano tra le ultime notizie e si limita il conflitto alla Capitale.
E’ subito notte! Si decide di dormire tutti assieme nel salone accanto al refettorio.
Sorridevo quando, durante la preparazione in Italia, i vecchi volontari rientrati dai Grandi Laghi ci insegnavano ad uscire dalle emergenze. Ci dicevano di non contraddire i soldati; di dormire sotto le finestre; di tenere aperto il collegamento radio, di pagare le richieste di corruzione e così via. Arrivato a Rilima mi lamentai con la direzione del Centro per l’esile rete che divideva il paese con l’ospedale. La vedevo come un ostacolo tra noi e la gente. Il 6 aprile avrei desiderato un muro alto 6 metri con i reticolati a corrente 380 a protezione del mondo che c’era attorno a me.
Sono arrivato a desiderare i mercenari. Potevano sparare qualsiasi cifra, l’avrei assoldati. Mi son fatto paura…ho avuto paura. Stavo entrando, anch’io, nella logica viziosa della guerra …..paura dell’altro….difesa armata….incutere paura….sino alla morte. Ti cambia la mente.
L’esile rete permise a decine di persone di salvarsi la vita, durante la prima e le seguenti notti. Decine di persone scampate dal genocidio.

Il personale del Centro inizia a dividersi. Hutu da un lato e tutsi dall’altro.
– No. Non dividiamoci! Urla l’assistente sociale responsabile del Centro. Dobbiamo stare uniti.
– Così ci uccidono sia noi che voi! Le risponde l’amica di etnia hutu che ha saputo di esser tale solo perché fu scritto, su mandato coloniale, sulla carta d’identità.
Bisogna preparare, per i tutsi, un nascondiglio sicuro, all’insaputa dei primi. All’insaputa di tutti. C’è una camera oscura vicino alla sala operatoria. Nessuno conosce l’esistenza a parte i medici. Mettiamoci alcune coperte ed in piena notte portiamoci i tutsi. Se arriverà l’esercito od i genocidari non li troveranno. Li hanno poi trovati. A fare la spia è stato colui con il quale ho lavorato fianco a fianco per quasi un anno. Vittorioso durante i massacri e braccato in seguito, dagli oppressi di ieri. Una vendetta che dura sino ai giorni nostri e che si è allargata a mezzo continente.

Il ministro. In Linea c’è il ministro! Grida l’amico Giandomenico. Via satellite la Farnesina ci raggiunge. Ci garantisce che in breve tempo saranno da noi i paracadutisti francesi.
Passeranno, poi, lunghe giornate. L’interramento di mine da parte dell’esercito rwandese e le minacce da parte del Fronte Patriottico fanno desistere ogni esercito a metter piede dentro i confini del piccolo Rwanda. Anzi. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU anziché rafforzare la presenza delle forze armate ONU, le riduce drasticamente. In Italia sta per cambiare il governo. Referente nostro è ora il ministro Martino.

Il fabbro dell’ospedale mi chiede di andare a recuperare la moglie ed i figli che sono fuggiti da casa durante la notte, evitando il massacro. Ora, sono dalla zia. Conosco la strada. Esco dall’Ospedale con la Pajero. In tasca ho una scacciacani che avrei avuto paura solo ad impugnare. Trovo la moglie del fabbro e le bambine là dove indicatomi. Carico tutti in auto e torno all’ospedale. Per le strade i genocidari, arrivati da lontano, scortati dall’esercito hanno già iniziato la mattanza.
L’inferno non può esser peggiore; ti sembra di sprofondare di girone in girone. Non c’è fine al peggio sino a trovarti in paradiso. Mi spiego. La gente sorride, collabora. I bambini saltellano, indicano ai genocidari dove si sono rifugiati i loro coetanei tutsi come stessero giocando a nascondino. Le donne aiutano l’esercito a compilare la lista come fosse quella della spesa ed invece è la lista delle persone da eliminare. A migliaia. Uno studente delle superiori, vedendomi, mi grida: “E’ la nostra Rivoluzione Francese”. Altri “Libertà, libertà”. C’è raduno, folla, lo “stare assieme”. Tutti rubano di tutto. E’ finita la fame, l’oppressione, l’umiliazione d’essere figli di un dio minore. Da sempre servi. Insomma, è la festa. Il “nobile” se ne sta nascosto nei cannetti, in foresta, nelle paludi. Con la sua famiglia; i suoi bambini. Qualche mamma li annega. Una morte più dolce del lungo coltello.
Impotente mi faccio largo a suon di clacson nella strada principale affinché non scoprissero il mio carico. Scopro sia tra coloro che uccidono e coloro che stanno per essere uccisi, vicini di casa, conoscenti, amici. E’ la follia popolare. Il giorno prima stavano seduti in Chiesa o al bar. Assieme.
La radio incita gli uni a riempire le fosse comuni degli altri, moderati compresi.
Passa un’altra notte. Lenta. Le grida fuori dell’ospedale, nuovi rifugiati dentro. Facciamo tutti la guardia, tranne gli zamu, che stavano complottando per allearsi con i più forti. Vivere non fidandosi del vicino.
– Ma tu hai coraggio di uccidere? Mi chiese il fabbro alle 3 di notte, durante un turno di guardia e di accoglienza dei scampati.
– Io no. Gli risposi.
– E allora che cosa ci fai qui con noi? Vai a dormire!
Dopo interminabili giornate arrivano i belgi. Teste di cuoio. Ragazzi poco più che ventenni dipinti di nero. Senza alcuna paura di uccidere, se necessario. Il loro comandante è esperto di evacuazioni: Zaire, Burundi ed ora Rwanda.
Il centro esplode di gioia. Tutti si considerano salvi. Dalla paura collettiva. Da loro stessi. Dai genocidari.
Hanno fame. Si prepara loro da mangiare. Si da fine alle scorte.
Poi il loro capo riceve una telefonata. Urla in francese. Stanno massacrando a Kigali i loro commilitoni. I ragazzi belgi che lavoravano sotto l’egida dell’ONU e che ho conosciuto due mesi prima.
Contr’ordine.
Portare via solo i bianchi.
Subito.
E’ la disperazione. Il personale tutsi chiede di essere ucciso con una mitragliata. Gli zairesi rivendicano diritti d’appartenenza alla comunità internazionale. La Farnesina non risponde, il Console sta facendo del suo meglio a Kigali.
A forza ci caricano sui camion. Abbandoniamo tutti! Sotto la minaccia delle armi affinché nessuno tentasse di salire sui mezzi in partenza. E’ iniziata la caccia al belga.
A Kigali ci attende un aereo che sarà, tra l’altro, carico di cani. I cani dei signori che vivevano in capitale. Poche le persone di colore. Destinazione Bruxelles.
In Belgio ci aspetta il Console mentre il Corriere della Sera titola in prima pagina: Salvi gli italiani di Rilima con tutto il personale locale. Come promesso dalla Farnesina.
Giandomenico va su tutte le furie. Le organizzazioni non governative pure. E’ una palla. Il Console ci ascolta e chiede un incontro immediato con il Ministro Belga. Non sono stati rispettati gli accordi.
Il Ministro belga ascolta e si lamenta delle pretese degli italiani. Il Console risponde secco: non sono italiano…. sono siculo! Silenzio. Il Ministro alza la cornetta ed invia una task force da Kigali, via elicottero, a Rilima. Li salva tutti; dopo una giornata di terrore ostaggi dell’esercito ed in attesa dei genocidari, fortunatamente lontani.

Ci ritrovammo in Europa con decine di bambini, adulti, scampati. L’asilo di Castenedolo di Brescia offrì la sua struttura per accogliere i più piccoli. Ironia della sorte. L’asilo confina con la Valsella. La stessa fabbrica di mine vendute nei Grandi Laghi.
Da lì a poco insorse la società civile e la Valsella viene riconvertita. Ci si nutre di speranza. Nei Grandi Laghi ha inizio la conquista della Repubblica Democratica del Congo. La guerra continentale per la conquista del suolo e sottosuolo. I contratti, per la proprietà di quest’ultimo, vengono oggi scritti in lingua inglese.

 

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Fabio Pipinato

Trento

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