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GIOVANNI CESCHI * SCUOLA E COVID: « CON LA TENTAZIONE DI FINGERE CHE AULE FATTE DI PIXEL SIANO IDENTICHE A QUELLE VERE AL FUNERALE DELLA SCUOLA POTREMO SOLO PRENDERCELA CON LE STELLE »

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17.50 - lunedì 23 novembre 2020

L’INGANNO DI DON FERRANTE –  «In rerum natura – diceva il don Ferrante dei Promessi sposi – non ci son che due generi di cose: sostanze e accidenti; e se io provo che il contagio non può esser né l’uno ne l’altro, avrò provato che non esiste, che è una chimera. […] Su questi bei fondamenti, non prese nessuna precauzione contro la peste; gli s’attaccò; andò a letto, a morire, come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle» (cap. 37). Fin qui Manzoni, in un passo troppo celebre e suggestivo per non evocare, in questo contagioso parlare di Covid, lo spettro del negazionismo. Da ben diverse premesse culturali, certo, essendo improbabile che i negazionisti d’oggi s’ispirino ad Aristotele; con simili effetti tragicomici, come avviene quando la realtà smentisce la teoria, e lo fa con l’ironia drammatica di colpire per l’appunto i teorici.

Ma il passo manzoniano si adatta bene anche a un altro tipo di negazionismo, non meno pericoloso nell’emergenza che viviamo: quello di fronte alla Scuola. I negazionisti qui sono coloro che a tutti i costi, e nonostante ogni evidenza contraria, si rifiutano di vedere che la didattica al computer introdotta con l’esplodere della pandemia, nel marzo scorso, ottiene risultati enormemente inferiori all’insegnamento in presenza. Ce ne sono, purtroppo, di teorici per i quali tra scuola reale e scuola digitale non esisterebbe differenza di sostanza – contenuti uguali, solo diverso il mezzo – né di accidente: per costoro la magia dell’incontro si realizzerebbe ugualmente, sarebbe anzi un miracolo più grande, ove brilla il mistero della premura tra insegnante e allievi…

I mesi primaverili di lockdown e queste settimane autunnali di chiusura completa alle superiori hanno dimostrato, più prosaicamente, che di DaD la Scuola muore; che si tratta di un inganno della volontà. Docenti e alunni potranno anche convincersi di fare le stesse cose, che il rito sia vivo e identico, ma nel concreto la scintilla non scocca, se non per qualche attimo che, paradossalmente, mette in luce quanto distante sia l’insegnamento autentico da uno fatto di pixel.

Per non comportarsi da negazionisti di fronte al virus di una scuola finta, bisognerà dunque ammettere che i danni della didattica a distanza vanno arginati e minimizzati. Come? Verrebbe da dire, di primo acchito: non agendo come ha agito il Governo nel Dpcm delle “regioni colorate”, segregando davanti a uno schermo tutti gli adolescenti e prescrivendo loro, comunque, il 100% d’autoinganno collettivo. Nel marzo scorso la decisione riguardò gli istituti d’ogni ordine e grado, per il crescere incontrollato della curva dei contagi, delle persone in terapia intensiva e dei morti che facevano passare anche la Scuola – come ogni altra attività umana – in secondo piano rispetto al dramma di un popolo terrorizzato. Oggi, pur a fronte della nuova impennata di contagi, le superiori chiuse senza un minuto in presenza sono una scelta, la cui discrezionalità è dimostrata dal fatto che gli alunni del primo ciclo continuano a frequentare, senza un minuto a distanza, e che gli adolescenti proseguono quasi tutte le altre attività, assai meno essenziali della frequenza scolastica.

Il confinamento degli studenti, senza distinzione, da marzo a giugno era stato deciso per un rischio incombente di contagio che induceva a una chiusura generalizzata; adesso la chiusura delle superiori ma non di elementari e medie dipende invece, con tutta evidenza, dalla logistica dei trasporti. Bene sta facendo, dunque, la Giunta provinciale, avvalendosi della competenza concorrente in materia d’istruzione, a tentare la strada di un almeno parziale ritorno fra i banchi degli studenti più grandi, nella constatazione che i danni di un prolungato blackout sono incalcolabili, ancorché invisibili al confronto con le immediate ricadute in altri settori.

E come si può riequilibrare il rapporto tra scuola vera e scuola virtuale? In molti modi, se c’è la volontà: flessibilizzando e coordinando gli orari negli istituti e tra istituti, ma in modo scientifico, mediante software per la gestione dei flussi; rallentando la didattica nei mesi più critici per l’epidemia e recuperandola in parte dell’estate; ridefinendo le percentuali di presenza e distanza nei vari cicli; programmando rientri periodici per attività destinate a gruppi più piccoli, come già è previsto per i bisogni educativi speciali; considerando “laboratoriali” a pieno titolo anche attività didattiche al di fuori degli istituti tecnici, per aprire ovunque finestre di scuola vera: ogni ragionevole soluzione che la comunità scolastica vorrà proporre, senza preclusioni ideologiche o coloriture politiche. Si sarà notato che entrambe le linee strategiche ipotizzate sia dalla maggioranza al Governo provinciale (deroga alla chiusura completa prevista a livello nazionale, coinvolgendo gli istituti nella loro autonomia) sia da esponenti dell’opposizione (prolungamento dell’anno scolastico fino a luglio) muovono da una premessa comune: che la DaD sia un fallimento, ininfluente se non dannosa per l’apprendimento, e che quindi un suo protrarsi esclusivo sia catastrofico, ancor più per un sistema come quello trentino che della “premura educativa” ha fatto il suo fiore all’occhiello.

Chi in questo contesto difende a oltranza qualche orticello si dimostra miope o ipocrita, perché auspica a parole un ritorno alla scuola in presenza mentre l’affossa impedendo le uniche soluzioni che la consentano. E nella più incredibile emergenza dal dopoguerra non si può certo affermare che il baluardo sia la normalità di settimane immuni da orari un po’ strani o di una futura estate identica a tutte le altre: sia perché ci si avvede che la situazione normale non è, sia perché la didattica si può ben articolare diversamente, se la priorità è riportare gli studenti in classe, così come si può chiedere agli insegnanti (purché i patti siano chiari) una provvisoria maggiore flessibilità. Accantonando il pensiero che la si voglia strumentalizzare per diffondere un nuovo modello di docente “sempre a disposizione”: chi oserebbe speculare in un simile frangente?

Altrimenti continueremo a comportarci come don Ferrante, ognuno per il suo ruolo. E non prendendo precauzioni contro un virus pericoloso quanto il Covid – la tentazione di fingere che aule fatte di pixel siano identiche a quelle vere che abbiamo lasciato dolorosamente vuote – al funerale della Scuola potremo solo prendercela con le stelle.

 

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Giovanni Ceschi

è docente di latino e greco al Liceo “Prati”

e presidente del Consiglio del sistema educativo

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