Con quella retorica di popolo che è pur funzionale nelle tragedie, si profetizzava che la pandemia avrebbe contribuito a creare una società più solidale, rafforzando i legami emotivi e affettivi tra le persone, e avrebbe riportato al centro il raziocinio e la competenza: è giusto che parli e decida chi se n’intende davvero. Gli eventi dimostrano che il distanziamento fisico imposto dal covid ha accentuato sentimenti tutt’altro che nobili come la diffidenza, l’opportunismo, l’egoismo; ma anche in quanto a razionalità non siamo messi proprio bene.
Da insegnante e prima ancora da cittadino, una società in cui vacillino i due pilastri fondamentali del cervello e del cuore mi preoccupa assai, e il covid è forse appena l’innesco a un esplosivo già presente: il clima da “si salvi chi può” fa dimenticare anzitutto che la realtà autentica non ha i contorni del bianco e del nero, ma è sfaccettata, variegata, sfumata: per quel miracolo dell’unicità che prende il nome di essere umano. La polarizzazione del dibattito è una conseguenza preoccupante di un mondo che non conosce più le sfumature e che sta assorbendo i tratti più preoccupanti dell’imposizione sociale e della contrapposizione social (non a caso, molto più affine al distanziamento che alla vicinanza di persone vere): i nostri dibattiti si affollano continuamente di pollici in su e pollici in giù, di persone che si schierano a favore o contro prima ancora d’entrare nel merito della questione. Pensiamo a quanti dei nostri interventi social esordiscono con un “concordo in pieno” o, viceversa, con “ma che stai dicendo?” cui raramente seguono argomenti, e anche nei dibattiti più articolati – che spesso sfociano in furiosi litigi: sulla rete, nei dibattiti in tv, sui quotidiani, in parlamento, con orrendo e pericoloso messaggio al cittadino – la polarizzazione è assicurata e la rissa sempre in agguato.
Perché sta avvenendo tutto ciò? Forse perché ci sentiamo sempre più minacciati e sempre meno sereni nell’esprimere quel che siamo, proprio nell’epoca che – per crudele paradosso – ha fondato nella libertà d’espressione e nella facilità di comunicazione i mantra di una propaganda e non le garanzie di un autentico progresso umano. E così, come cantava Jovanotti già nel 2007, «diventi un appestato quando fai uno sbaglio. Un cartello di sei metri dice tutto è intorno a te ma ti guardi intorno e invece non c’è niente»: metafora aurorale di quegli utilissimi e terribili strumenti che abbiamo sempre in mano – i telefoni cosiddetti intelligenti – che dovrebbero servire a farci sentire più vicini e che alimentano invece una litigiosità perpetua, in nome di un io che si espande ipertrofico.
La testimonianza più lampante di questa drammatica situazione, ormai più virale del covid stesso, l’abbiamo con la polemica sul green pass. Per non essere frainteso, premetto che sono vaccinato – convintamente – da mesi (facendo lo slalom fra un tira-e-molla sulle prenotazioni per categorie lavorative che non depone a favore di un sistema serio; ma tant’è). Da docente vaccinato, in piena libertà e convinto di tutelare al meglio la mia salute, trovo però inaccettabile che, in ordine di (ir)ragionevolezza: 1) s’imponga a tutti la vaccinazione correlandola all’espletamento del lavoro, e alla corresponsione dello stipendio, cioè agendo ricattualmente sul piano più elevato e delicato dell’identità personale, oltre che del diritto al sostentamento nell’esercizio di una professione conquistata con studio e sacrificio; 2) non la s’imponga in modo diretto, con l’obbligo, ma in modo surrettizio, con uno strumento che nei fatti complica insopportabilmente la vita a chi vuole esercitare quella libertà di scelta che lo strumento stesso garantisce solo in apparenza; 3) la s’imponga a macchia di leopardo, cioè selettivamente per categorie e senza omogeneità all’interno degli ambienti di lavoro: cosicché i docenti – al pari del personale sanitario – debbano essere costretti a esibire la carta verde mentre altre categorie no (secondo una logica di convenienza economica, in tutti i sensi) ma soprattutto in un contesto dove l’obbligo non sia esteso a tutti, cioè anche agli studenti che vivono fianco a fianco con i loro insegnanti: il diritto alla salute – se è davvero ciò di cui stiamo parlando – non può essere asimmetrico, parziale, unidirezionale.
Da docente vaccinato, per le ragioni appena espresse mi sentirei ipocrita a insegnare ai miei studenti che il vaccino debba essere imposto come requisito obbligatorio per chi non possa o non voglia proteggersi. Perché di questo stiamo parlando: dell’indubbio minore rischio per i vaccinati di contrarre il virus in forma grave, non di assenza di contagiosità in assoluto: anzi, chi si sottoporrà al tampone ogni due giorni sarà certamente più sicuro (e quindi più civicamente responsabile?) degli stessi vaccinati. Se non dicessi questo ai miei studenti, avrei seri problemi con la mia coscienza ma soprattutto con il dovere di educare allo spirito critico che è il compito più alto e sacro della scuola.
Insegno invece convintamente – in una di quelle estemporanee lezioni d’educazione civica ritagliate all’interno di un’ora d’italiano, latino o greco, perché ancora non esiste come materia autonoma, ma avendo dalla mia il magistero altissimo di Socrate – che nell’esercizio di un’autentica democrazia la legge va rispettata dai cittadini anche quando si sia in dissenso, con il dovere morale di una resistenza solo di fronte a norme disumane che mettano a rischio la vita, la libertà, la dignità di altri esseri umani. Il punto è che il dovere della vaccinazione lo Stato non ha (ancora?) avuto il coraggio di affermarlo, e le ragioni per cui non l’ha fatto – volendo augurarsi una certa altezza e lungimiranza di prospettive – sono le stesse per cui va tutelato in ogni modo il diritto dei miei colleghi di continuare a svolgere responsabilmente, in modo credibile e degno, la propria professione senza ricevere alcuno stigma sociale per una libera scelta di salute personale.
Questo vorrei dire, e dirò, ai miei studenti. Ed è chiaro che l’icona di un pollice in su o in pollice in giù – o uno schieramento in fazioni, più o meno maggioritarie: ché la ragione, interpretando ancora Socrate, non si pesa a chili sulla bilancia – non potrà mai sostituire il dono prezioso del raziocinio che ci rende uomini e donne, e del cuore che ci rende umani. Vorrei poter aggiungere, ai miei studenti, che siamo fuori da questa pandemia perché al centro della nostra vita sono tornati la ragione e il cuore, non un inconsistente e pericoloso idolo di sopravvivenza biologica che catalizza ogni attenzione e sospende ogni garanzia di uguaglianza nella polis. Come ancora cantava Jovanotti in quel profetico “Fango”, «l’unico pericolo che senti veramente è quello di non riuscire più a sentire niente: il battito di un cuore dentro al petto, la passione che fa crescere un progetto, l’appetito la sete l’evoluzione in atto, l’energia che si scatena in un contatto».
*
Giovanni Ceschi
Docente di Latino e Greco al liceo “Prati” – Presidente del Consiglio del sistema educativo