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CESCHI (PRESIDENTE CONSIGLIO SISTEMA EDUCATIVO PAT) * PRIMO GIORNO SCUOLA: « CON LA PANDEMIA CI SIAMO PERSI LA SPERANZA, LA SOCIETÀ SANITARIZZATA È MALATA D’INDIVIDUALISMO »

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06.59 - lunedì 13 settembre 2021

Si riavvia oggi il motore della scuola. Molti osservatori si sono concentrati sulle difficoltà di un anno che si preannuncia complicato. Non c’è dubbio che esso sarà ancora condizionato dalle conseguenze del covid-19 e dai problemi, sempre al centro dell’attenzione mediatica, relativi alla vaccinazione del personale scolastico, alle misure sanitarie, alla predisposizione di piani d’emergenza nella disgraziata eventualità di un nuovo colpo di coda.

E tuttavia questi problemi – esistenti anche se ci imponessimo di non parlarne con quel tono sollecito e ansioso che li enfatizza nell’immaginario di chi, per fortuna, continua a vivere la scuola come una quotidiana, emozionante scoperta – ebbene, questi problemi non devono far passare in secondo piano il brivido della velocità ritrovata per un motore che si riavvia e ci auguriamo riprenda a funzionare a pieni giri verso il futuro. Chiusi nei cupi pensieri di un mondo immobilizzato prima, traumatizzato poi e ora profondamente rallentato dalla pandemia, rischiamo d’aver dimenticato per sempre alcune meraviglie della Scuola che ogni anno, alla ripresa delle lezioni, si rinnovano. Affinché la paura non prenda il sopravvento sulla speranza, proviamo a ricordarci quel che ci siamo persi negli ultimi due anni; e come il ventesimo anniversario dell’attentato alle Torri Gemelle che ricorreva due giorni fa è stato pervaso dall’amara consapevolezza che dopo quell’11 settembre la vita non sia stata più la stessa per la paura che ha invaso le nostre esistenze, nella normalità della quale i millennials vivono senza percezione di un prima e di un dopo, così dobbiamo fare di tutto – proprio di tutto – per evitare che fra vent’anni un altro spartiacque (il covid) abbia trasformato a tal punto la Scuola da far sì che essa sia altro rispetto al marzo 2020. Continuiamo a ricordarcelo, facendo memoria ininterrotta e ostinata di quel che ci siamo persi.

Ci siamo persi il profumo di un’aula scolastica, sopraffatto dall’odore degli igienizzanti e dallo schermo delle mascherine o dei computer. Più ancora, ci siamo persi il volto di chi ci sta vicino, le sfumature umane e fascinose di tante quotidianità che s’incontrano, di tante storie personali che diventano storia di quella piccola comunità che chiamiamo classe e che ciascuno di noi, non importa quanto avanti nel viaggio della vita, ricorda ancora come una delle cose più nitide e care. Ci siamo persi la vicinanza del compagno o della compagna di banco, il dono di condividere il mare fianco a fianco imbarcati sulla nave della conoscenza verso un futuro intonso, temuto e sperato insieme. La distanza era “di sicurezza” nella tempesta della pandemia; ora è misura prudente, certo, ma si sta trasformando in distanza “d’inquietudine”, con danni incalcolabili sulla fisicità dello stare insieme e persino sull’apprendimento che per l’essere umano – animale sociale – è da sempre il prodotto di una comunità emotiva e non di tante, isolate monadi pensanti (come, nel migliore dei casi, impone anche l’unica didattica possibile a distanza; e l’insegnamento è ben altra cosa).

Inevitabile, si dirà. Finora sì, ma verrà il momento in cui inevitabile o automatico non sarà più. E in quel momento ricordiamolo, quel che ci siamo persi, per evitare che dei banchi distanziati siano percepiti come l’unica misura della relazione a scuola. Come insegnanti ci siamo persi, specularmente, l’idea fondamentale di collegio docenti come organo che si sostanzia di personalità molto differenti composte in un mosaico vivo d’incontri veri, di confronti su progetti comuni, di speranze condivise con l’obiettivo del miglior futuro possibile per gli studenti; reduci come siamo da una deprimente esperienza di videolezioni, test a crocette davanti a una tastiera e riunioni in collegamento remoto in un alveare digitale dove tante api operaie s’incrociano senza incontrarsi mai. È indubbio, guardandosi un po’ intorno, che della “scuola fatta da casa” qualche collega apprezzi non la sicurezza sanitaria e – si badi – ormai neppure una vaga prudenza (se traiamo le conseguenze logiche dall’obbligo del certificato verde) ma la semplice comodità di riunioni svolte dal salotto o dalla cucina, permettendosi magari a telecamera spenta il multitasking dei lavori domestici. Non c’è dubbio che anche qualche dirigente scolastico, preoccupato anziché arricchito dall’esistenza di una vera comunità educante nella propria scuola, preferisca l’asettica facilità d’impartire istruzioni a un gruppo di lavoratori spaventati. E questo è davvero inquietante: che quasi nessuno abbia fatto notare, in lunghi mesi, che tra smart working e lavoro dell’insegnante c’è un divario abissale. Lo stesso che intercorre tra un’esperienza di vita e il suo racconto a chi non ne sia stato protagonista.

Ancora: negli ultimi due anni ci siamo persi i viaggi d’istruzione, che gli studenti vivono come momento irrinunciabile di cultura che esce dai libri ed entra nella vita, e che come docenti abbiamo sempre garantito ad ogni costo, anche a quello altissimo di responsabilità e rischi assenti da qualsiasi mansionario; perché chiunque con passione abbia accompagnato una classe sa quanti insegnamenti ed emozioni incancellabili regalino quei giorni insieme in giro per il mondo. Appena i viaggi organizzati dalla scuola saranno di nuovo possibili – in ogni altro ambito del vivere sociale lo sono da tempo, per ragioni di svago e di vacanza: veniamo da un’estate di turismo più che normale – ebbene, ricordiamoci che c’è da riprendere anche questo filo interrotto ai primi tepori della primavera 2020 che, bloccandoci in casa, ha reso impossibile qualsiasi uscita didattica.

Con la pandemia ci siamo persi il coraggio della speranza e l’ottimismo della volontà: la società sanitarizzata nella quale viviamo e in cui proviamo a rassicurarci con l’idolo della salute fisica è una società ammalata d’individualismo, di sospetto reciproco, talora persino d’ostilità dove nulla è come sembra. E qui – se davvero proveniamo da una guerra, come certa retorica inevitabile nei drammi di popolo ci ha abituato ad affermare: la guerra al covid, inconsapevole e invisibile nemico che si è insinuato ancor più nell’anima che nel corpo dell’umanità – affidiamoci al magistero altissimo della tragedia di Euripide, che nell’Elena denuncia una guerra combattuta per lunghi anni a causa di uno spettro. Perché il covid esiste eccome – e tutti abbiamo scolpite nella mente la morte e la sofferenza autentiche, di cui dobbiamo continuare a far memoria ai nostri studenti – ma ora il rischio è che per combattere contro la sua immagine, persistente sulla retina dei nostri occhi impauriti, non vediamo più quel che ci siamo persi in tempo di pace.

 

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Giovanni Ceschi
Docente al liceo “Prati” e Presidente del Consiglio del sistema educativo della Provincia di Trento

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