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CENSIS * 6° RAPPORTO PAESE – 2022: « ITALIA MALINCONICA E IN STATO DI LATENZA, I SUSSIDI A PIOGGIA COMPORTANO NEGATIVI EFFETTI COLLATERALI »

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10.18 - venerdì 2 dicembre 2022

(Il testo seguente è tratto integralmente dalla nota stampa inviata all’Agenzia Opinione) –
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Tre anni, quattro crisi profonde: la pandemia che sembrava alle spalle, l’impennata del costo della vita, la guerra in Europa, i costi dei servizi energetici. Di qui l’interrogativo «dove siamo?» che riporta al centro della coscienza sociale l’indispensabile sforzo per uno sguardo a largo raggio, contro ogni ipotesi di soluzione a breve.

Siamo di fronte a sconvolgimenti veloci, inaspettati, difficili da metabolizzare, a un rimescolamento delle carte e a un ridisegno delle planimetrie sociali che impongono soluzioni. La crescita delle esportazioni, rapida e diffusa negli ultimi mesi, maschera il calo della domanda interna e la rimodulazione dei consumi; la politica dei sussidi a pioggia copre bisogni indistinti e comporta negativi effetti collaterali; la ricerca di una nuova e diversa posizione professionale che coinvolge tanti giovani, a volte con poca attenzione alla progressione di conoscenze e competenze, annebbia le difficoltà strutturali di inserimento nella vita lavorativa; i flussi di risorse promessi e assegnati dal Pnrr al Mezzogiorno, mai come ora ingenti, chiamano a raccolta capacità di progettazione e responsabilità locali spesso inadeguate per mettere in moto dinamiche di medio periodo e occupazione di qualità. E la funzione preziosa dei reticoli intermedi di responsabilità, gli unici in grado di ricondurre i percorsi individuali in un cammino collettivo, non è più nemmeno una parola d’ordine utile a prevenire i problemi latenti e a tamponare quelli esistenti.

Il nostro Paese, nonostante lo stratificarsi di crisi e difficoltà, non regredisce grazie allo sforzo individuale, ma non matura. Riceve e produce stimoli a lavorare, a mettersi sotto sforzo, a confrontarsi con le ferite della storia, ma non manifesta una sostanziale reazione: rinuncia alla pretesa di guardare in avanti. Vive in una sorta di latenza di risposta, in attesa che i segnali dei suoi sensori economici e sociali siano tradotti in uno schema di mappatura della realtà e dei bisogni, adattamento, funzionamento. La società italiana aspetta di divenire adulta, si affida alle rendite di posizione e di ricchezza, senza corse in avanti affronta i grandi eventi delle crisi globali con la sola soggettiva resistenza quotidiana. Ma un prolungamento della fase latente della vita sociale comporta il rischio di una sorta di masochistica rinuncia, senza forza e ambizione, a ogni tensione a trasformare l’assetto sistemico e civile della nostra società. Una sorta di acchiocciolamento nell’egoismo, di avvolgimento a spirale su se stessa della struttura sociale che attesta tutti a traguardi brevi.

Resta la realtà che l’Italia non cresce abbastanza o non cresce affatto; che la macchina amministrativa pubblica è andata fuori giri e così non sarà in grado di trainare la ripresa; che la ricerca è intrappolata nella morsa di una scarsa qualità delle strutture e della programmazione pubblica; che l’esercizio della giustizia presenta disparità territoriali intollerabili; che la cronica sottoassicurazione degli italiani è uno dei privilegi che non possiamo più permetterci; che la vivace e positiva dinamica manifatturiera è stretta da una endemica fragilità logistica; che il ritardo dei servizi avanzati ricade anche sull’economia dei servizi tradizionali.

Giudicando il fiume non dal suo scorrere lungo l’argine, ma solo dalla foce, abbiamo assistito a un proliferare, spesso scomposto, di piani di ogni genere: per la resilienza, per la sicurezza informatica, per il clima e l’energia, per la mobilità elettrica, per l’idrogeno, per la non autosufficienza, per la sostenibilità sociale, solo per fare qualche esempio. Senza, o quasi, dibattito pubblico, senza traguardi e impegni precisi, senza vincoli ai processi e ai soggetti. Lasciando a ciascuno il primato dell’opinione individuale, ogni spinta programmatica è spenta nell’enfasi dell’arrivo e nel rinvio di ogni responsabilità attuativa. Come se la foce dica tutto del fiume.

Lo sforzo di autoconservazione, l’istinto a resistere e a conservare convenienze individuali, il contenimento dei doveri di solidarietà, lo scivolamento in basso degli investimenti sociali hanno finito per appiattire tutto sull’esistente; e nulla come la conservazione dell’esistente genera più contraddizioni e diseguaglianze, perché l’individuale adattarsi al mondo smarrisce ogni responsabilità collettiva di futuro.

Lo slogan dell’«uno vale uno» ha lasciato il posto alla competenza degli scienziati, degli strateghi militari, degli economisti dell’energia che, a loro volta, sembrano richiesti di cedere il passo, di nuovo, alla politica. La messa di lato operata dalla società della vitalità continuata, dell’imprevedibile fecondo, dell’Italia arrangiatoria di sempre, con le sue patologie strutturali, non può giustificare la rinuncia da parte della classe dirigente a risalire il fiume, remando contro corrente. Che è ciò che serve affinché si sappia affrontare la domanda «dove siamo, tutti insieme, nel nostro tempo?».

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L’Italia post-populista. La società italiana entra nel ciclo del post-populismo. Alle vulnerabilità economiche e sociali strutturali, di lungo periodo, si aggiungono adesso gli effetti deleteri delle quattro crisi sovrapposte dell’ultimo triennio: la pandemia perdurante, la guerra cruenta alle porte dell’Europa, l’alta inflazione, la morsa energetica. E la paura straniante di essere esposti a rischi globali incontrollabili. Da questo quadro profondamente mutato emerge una rinnovata domanda di prospettive di benessere e si levano autentiche istanze di equità che non sono più liquidabili semplicisticamente come «populiste», come fossero aspettative irrealistiche fomentate da qualche leader politico demagogico. La quasi totalità degli italiani (il 92,7%) è convinta che l’impennata dell’inflazione durerà a lungo, il 76,4% ritiene che non potrà contare su aumenti significativi delle entrate familiari, il 69,3% teme che il proprio tenore di vita si abbasserà (e la percentuale sale al 79,3% tra le persone che già detengono redditi bassi), il 64,4% sta intaccando i risparmi per fronteggiare l’inflazione. Cresce perciò la ripulsa verso privilegi oggi ritenuti odiosi, con effetti sideralmente divisivi: per l’87,8% sono insopportabili le differenze eccessive tra le retribuzioni dei dipendenti e quelle dei dirigenti, per l’86,6% le buonuscite milionarie dei manager, per l’84,1% le tasse troppo esigue pagate dai giganti del web, per l’81,5% i facili guadagni degli influencer, per il 78,7% gli sprechi per le feste delle celebrities, per il 73,5% l’uso dei jet privati. Ma non si registrano fiammate conflittuali, intense mobilitazioni collettive attraverso scioperi, manifestazioni di piazza o cortei. Si manifesta invece una ritrazione silenziosa dei cittadini perduti della Repubblica. Alle ultime elezioni il primo partito è stato quello dei non votanti, composto da astenuti, schede bianche e nulle, che ha segnato un record e una profonda cicatrice nella storia repubblicana: quasi 18 milioni di persone, pari al 39% degli aventi diritto. In 12 province i non votanti hanno superato il 50%. Tra le politiche del 2006 e quelle del 2022 i non votanti sono raddoppiati (+102,6%), tra il 2018 e il 2022 sono aumentati del 31,2% (quasi 4,3 milioni in più). Per porzioni crescenti dei ceti popolari e della classe media il tradizionale intreccio lineare «lavoro-benessere economico-democrazia» non funziona più.

L’ingresso in una nuova età dei rischi. Privati del conforto di una teleologia rassicurante e senza più credere alle radiose promesse della modernità, nella nuova età dei rischi i più cercano una profilassi per l’immunizzazione dai pericoli correnti. Nell’immaginario collettivo si è sedimentata la convinzione che tutto può accadere, anche l’indicibile: il lockdown, il taglio di consumi essenziali (dall’energia al carrello della spesa alimentare), la guerra di trincea o l’uso della bomba atomica. L’84,5% degli italiani è convinto che eventi geograficamente lontani possano cambiare improvvisamente e radicalmente la propria

quotidianità e stravolgere i propri destini. Il 61,1% teme che possa scoppiare un conflitto mondiale, il 58,8% che si ricorra all’arma nucleare, il 57,7% che l’Italia entri in guerra. È l’assottigliamento del diaframma tra la grande storia e le microstorie delle vite individuali a generare nei nostri tempi la percezione di rischi che fanno sentire impotenti, al di là di ogni iniziativa di prevenzione alla propria portata, ricorrendo ad esempio alle coperture assicurative. Oggi il 66,5% degli italiani (10 punti percentuali in più rispetto al 2019 pre- Covid) si sente insicuro. I principali rischi globali percepiti sono: per il 46,2% la guerra, per il 45,0% la crisi economica, per il 37,7% virus letali e nuove minacce biologiche alla salute, per il 26,6% l’instabilità dei mercati internazionali (dalla scarsità delle materie prime al boom dei prezzi dell’energia), per il 24,5% gli eventi atmosferici catastrofici (temperature torride e precipitazioni intense), per il 9,4% gli attacchi informatici su vasta scala.

Il costo dei grandi eventi della storia: l’inceppamento dei meccanismi proiettivi e la malinconia sociale. Quella del 2022 non sembra però una Italia sull’orlo di una crisi di nervi, segnata da diffuse espressioni di rabbia e da gravi tensioni sociali. Ma i meccanismi proiettivi tipici di una rampante società dei consumi, che in passato spingevano le persone a fare sacrifici per modernizzarsi, arricchirsi e imbellirsi, hanno perso presa e capacità di orientare i comportamenti collettivi. Prevale piuttosto la voglia di essere se stessi, con i propri limiti. Gli italiani non sono più disposti a fare sacrifici: l’83,2% per mettere in pratica le indicazioni di qualche influencer, l’81,5% per vestirsi secondo i canoni della moda, il 70,5% per acquistare prodotti di prestigio, il 63,5% per sembrare più giovani, il 58,7% per sentirsi più belli. E il 36,4% non è disposto a sacrificarsi per fare carriera nel lavoro e guadagnare di più. Complessivamente, 8 italiani su 10 affermano di non avere voglia di fare sacrifici per cambiare, diventare altro da sé. È l’astuzia operativa della soggettività che, nel flusso degli eventi inattesi degli ultimi anni, adesso esprime una inedita impermeabilità ai miti proiettivi, che può tracimare nell’esplicita rinuncia all’autopromozione individuale. Il bilancio? L’89,7% degli italiani dichiara che, pensando alla sequenza di pandemia, guerra e crisi ambientale, prova tristezza, e il 54,1% ha la forte tentazione di restare passivo. È la malinconia a definire oggi il carattere degli italiani, il sentimento proprio del nichilismo dei nostri tempi, corrispondente alla coscienza della fine del dominio onnipotente dell’«io» sugli eventi e sul mondo, un «io» che malinconicamente è costretto a confrontarsi con i propri limiti quando si tratta di governare il destino.

La privatizzazione dei rischi e il senso di insicurezza. Al vertice delle insicurezze personali degli italiani, per il 53,0% c’è il rischio di non autosufficienza e invalidità, il 51,7% teme di rimanere vittima di reati, il 47,7% non è sicuro di poter contare su redditi sufficienti in vecchiaia, il 47,6% ha paura di perdere il lavoro e quindi di andare incontro a difficoltà economiche, il 43,3% teme di incorrere in incidenti o infortuni sul lavoro, il 42,1% di dover pagare di tasca propria prestazioni sanitarie impreviste. Eppure, nell’ultimo decennio i reati denunciati in Italia si sono ridotti complessivamente del 25,4%. Oggi siamo il Paese statisticamente più sicuro di sempre. I crimini più efferati, gli omicidi volontari, sono diminuiti dai 528 del 2012 ai 304 del 2021 (-42,4%). E sono in forte contrazione i principali fenomeni di criminalità predatoria: in dieci anni le rapine sono diminuite da 42.631 a 22.093 (-48,2%), i furti nelle abitazioni da 237.355 a 124.715 (-47,5%), i furti di autoveicoli da 195.353 a 109.907 (-43,7%). Nell’ultimo decennio sono aumentate solo alcune fattispecie di reato: le violenze sessuali (4.689 nel 2012, 5.274 nel 2021: +12,5%), le estorsioni (+55,2%), le truffe informatiche (+152,3%).

Una società «senza»: territori senza coesione sociale. La mappa delle nuove fragilità sociali contempla innanzitutto le famiglie che vivono in condizione di povertà assoluta: sono più di 1,9 milioni (il 7,5% del totale), cioè 5,6 milioni di persone (il 9,4% della popolazione: 1 milione di persone in più rispetto al 2019). Di queste, il 44,1% risiede nel Mezzogiorno. I giovani 18-24enni usciti precocemente dal sistema di istruzione e formazione sono il 12,7% a livello nazionale e il 16,6% nelle regioni del Sud, contro una media europea di dispersione scolastica che si ferma al 9,7%. Mediamente nei Paesi dell’Unione europea la quota di 25- 34enni con il diploma è pari all’85,2%, in Italia al 76,8% e scende al 71,2% nel Mezzogiorno. È inferiore alla media europea anche la percentuale di 30-34enni laureati o in possesso di un titolo di studio terziario: il 26,8% in Italia e il 20,7% al Sud, contro una media

Ue del 41,6%. Il nostro Paese detiene anche il primato europeo per il numero di Neet, i giovani che non studiano e non lavorano: il 23,1% dei 15-29enni a fronte di una media Ue del 13,1%. Ma nelle regioni del Mezzogiorno l’incidenza sale al 32,2%.

Scuola e università senza studenti. Negli ultimi cinque anni gli alunni delle scuole sono diminuiti da 8,6 milioni a 8,2 milioni: -4,7% (403.356 in meno). L’onda negativa della dinamica demografica è particolarmente evidente nella scuola dell’infanzia (-11,5% nei cinque anni) e nella scuola primaria (-8,3%). Anche nelle università nell’anno accademico 2021-22 si assiste a una brusca contrazione del numero delle immatricolazioni: -2,8% rispetto all’anno precedente (9.400 studenti in meno). In base alle previsioni demografiche, si prefigurano aule scolastiche desertificate e un bacino universitario depauperato. Già tra dieci anni la popolazione di 3-18 anni scenderà dagli attuali 8,5 milioni a 7,1 milioni, e nel 2042 potrebbe ridursi a 6,8 milioni (1,7 milioni in meno rispetto al 2022). Lo tsunami demografico investirà prima la scuola primaria e la secondaria di primo grado, con un decremento, rispetto a oggi, di quasi 900.000 persone di 6-13 anni nel 2032, per arrivare nel decennio successivo a colpire duramente la scuola secondaria di secondo grado: 726.000 ragazzi di 14-18 anni in meno rispetto al 2022. Tra vent’anni, nel 2042, la popolazione 19-24enne avrà subito un calo di quasi 760.000 persone rispetto a oggi: a parità di propensione agli studi universitari, si conterebbero 390.000 iscritti e 78.000 immatricolati in meno rispetto a oggi (e attualmente gli studenti stranieri sono appena il 5,5% degli iscritti all’università).

Sanità senza medici e infermieri. Mentre nel decennio 2010-2019 il Fondo sanitario nazionale ha registrato un incremento medio annuo dello 0,8%, passando da 105,6 a 113,8 miliardi di euro, nel 2020 è aumentato a 120,6 miliardi, con un incremento medio annuo dell’1,6% nel periodo 2020-2022 dovuto alle misure per fronteggiare l’emergenza Covid. Ma l’incidenza del finanziamento del Sistema sanitario nazionale scenderà al 6,2% del Pil nel 2024 (era il 7,3% nel 2020). Dal 2008 al 2020 il rapporto medici/abitanti in Italia è diminuito da 19,1 a 17,3 ogni 10.000 residenti, e quello relativo agli infermieri da 46,9 a 44,4 ogni 10.000 residenti. L’età media dei 103.092 medici del Ssn è di 51,3 anni, 47,3 anni quella degli infermieri. Il 28,5% dei medici ha più di 60 anni e un numero consistente si avvicina all’età del pensionamento. Si stima che, nel quinquennio 2022-2027, saranno 29.331 i pensionamenti tra i medici dipendenti del Ssn, 21.050 tra il personale infermieristico. Dei 41.707 medici di famiglia, saranno 11.865 ad andare in pensione (2.373 l’anno).

Il riposizionamento latente: a chi conviene la de-globalizzazione? Il friend-shoring all’italiana. Nel 2021 il valore dell’export italiano ha superato i 600 miliardi di euro (516 miliardi le merci, 87 miliardi i servizi), corrispondenti al 33,8% del Pil. Per quest’anno si attende un aumento delle esportazioni per 70 miliardi di euro (53 miliardi per la sola componente dei beni). Ma ora si registra una decelerazione del commercio internazionale a causa della guerra russo-ucraina. L’Italia sembra avere già iniziato a perseguire una propria strategia di friend-shoring intensificando gli scambi con i Paesi europei, con l’area nord- americana e con i Paesi del Mediterraneo. Tra gennaio e luglio di quest’anno, l’export di merci verso l’Ue e il Regno Unito è aumentato del 22,9% rispetto allo stesso periodo del 2021 e quello verso i Paesi Nafta (Canada, Stati Uniti e Messico) del 31,0%. Su 364,4 miliardi di euro di esportazioni italiane nel mondo, relative ai primi sette mesi di quest’anno, il 78,8% è di tipo friend-shoring. Considerando l’area del Mediterraneo, si aggiungono altri 23 miliardi, con un aumento del 30,3% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

La ristrutturazione del sistema d’impresa accelerata dalla crisi energetica. A causa del caro-bollette, si stima che 355.000 aziende (l’8,1% delle imprese attive) potrebbero subire un grave squilibrio tra costi e ricavi. La gran parte (l’86,6%) si colloca nel terziario, una parte minore (il 13,6%) nel settore industriale. Le criticità interessano 3,3 milioni di addetti (il 19,2% del totale), di cui il 74,5% nel settore dei servizi (2,5 milioni di addetti) e il 25,5% nell’industria (850.000 addetti). Se si verificassero gli esiti già osservati nelle passate ondate di crisi, sarebbero ancora una volta le microimprese a soffrire di più. Tra il 2012 e il 2020 le imprese attive si sono ridotte di 15.000 unità. Il saldo negativo deriva dal calo nella

classe di addetti fino a 9 unità (-18.115), mentre le altre classi dimensionali presentano, all’opposto, saldi positivi, soprattutto nella dimensione 50-249 addetti (+2.225 imprese).

Il banco di prova della Pa, tra iniezioni di risorse umane e impulso al rinnovamento.

L’occupazione nel settore pubblico (3.249.000 dipendenti) si è ridotta negli ultimi vent’anni di quasi 260.000 lavoratori. Siamo passati da 61,7 dipendenti pubblici ogni 1.000 abitanti nel 2002 al minimo registrato nel 2013 (53,6 per 1.000), fino ai 55,1 ogni 1.000 residenti nel 2021. La Pubblica Amministrazione ha dunque dovuto far fronte alle esigenze di cittadini e imprese con minori forze. In Italia il 13,7% degli occupati è impiegato dalle amministrazioni pubbliche, ma in Francia il 19,7%, in Spagna il 16,9% e nel Regno Unito il 16,4% (solo in Germania il rapporto è inferiore: l’11,1%). Nell’ultimo anno il costo del personale dipendente della Pa è stato pari a 166,8 miliardi di euro, ovvero il 10% del Pil. L’età media dei dipendenti pubblici sfiora i 50 anni: 6,5 anni in più rispetto al 2001. Attualmente il personale con 55 anni e oltre costituisce il 36,7% del totale e ‒ un dato ancora più preoccupante ‒ quello con meno di 35 anni è ridotto a circa il 10%, meno della metà rispetto al 2001. Anche l’anzianità di servizio media è aumentata negli ultimi vent’anni: da 16,5 a 17,5 anni. Grazie alle recenti stabilizzazioni del comparto scuola è aumentata la quota del personale con meno di 5 anni di anzianità di servizio (il 25,8%), ma si tratta per lo più di precari di lungo corso inseriti stabilmente in una macchina pubblica fortemente senilizzata.

Una spinta dall’oligarchia tecnocratica. Il personale dirigente della Pubblica Amministrazione, dopo il minimo toccato nel 2017, si attesta oggi a 193.000 persone, il 3,5% in più rispetto al 2011 (mentre nello stesso periodo il resto del personale della Pa diminuiva dell’1,5%). Si conta un dirigente ogni 16 dipendenti pubblici. Si nota però un progressivo invecchiamento. Aumentano sia i dirigenti over 55enni (dal 41,0% del totale nel 2011 al 44,2%), sia nella fascia intermedia di 35-44 anni (dal 17,1% al 21,7%). Negli ultimi anni però sono in leggero aumento i giovani dirigenti, con meno di 35 anni (dal 2,5% del totale nel 2011 al 3,8%), rimanendo tuttavia mosche bianche all’interno della Pa. Aumentano i dirigenti con alte competenze, acquisite attraverso percorsi di specializzazione post-laurea e dottorati di ricerca, che pesano per il 46,7%. Nonostante sia ancora residuale la quota di cittadini che ritengono che la Pa funzioni molto bene (il 3,4%), è aumentata la quota di quanti si dichiarano parzialmente soddisfatti (il 40,2%). Ma oltre la metà degli italiani (il 51,5%) si dichiara ancora insoddisfatta. I principali motivi che causano il cattivo funzionamento della Pa, secondo i cittadini insoddisfatti, sono l’eccesso di burocrazia (31,4%), la scarsa motivazione del personale (29,2%), la cattiva organizzazione (17,5%) e l’interferenza della politica nelle nomine dei dirigenti (12,9%). Il 6,3% degli insoddisfatti indica come motivo principale del cattivo funzionamento della Pa il ricorso ancora limitato alle tecnologie digitali.

 

 

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