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CAVADA (LEGA) * DONNE – DIRITTI CIVILI « LA VICENDA DI SAMAN ABBAS È FRUTTO DI VISIONI CULTURALI ARRETRATE, NON RISPETTOSE DELLA LIBERTÀ DI AMARE E SPOSARSI SENZA VINCOLI »

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11.40 - domenica 13 giugno 2021

“Donne, Islam e catene”.

La drammatica vicenda di Saman Abbas – la giovane pachistana scomparsa ad aprile da Novellara, nella Bassa Reggiana, e il cui destino è stato segnato dal suo rifiuto alle nozze con un cugino, impostole dai genitori – offre più spunti di riflessione. Infatti, anche se il corpo di Saman non è ancora stato trovato, il suo dramma sottolinea degli aspetti ineludibili. Alludo, anzitutto, al permanere di visioni culturali arretrate e non rispettose della libertà delle donne di amare e sposarsi senza vincoli.

Un tema che la cultura occidentale ha affrontato da secoli grazie alla Chiesa, che, a partire dal quarto concilio Lateranense del 1215, ha iniziato a considerare valido il matrimonio solo previo consenso della donna, formalizzando una prassi consolidata dato che già sant’Agostino spiegava eloquentemente che, sull’unione tra sposi, «l’intervento dei genitori non è di diritto divino».

Certo, tale visione non si è affermata in modo rapido e omogeneo, ma col Cristianesimo, come dicevo, il principio di dignità e libertà femminile ha fatto gran passi avanti; lo stesso, come prova la vicenda di Saman Abbas, non si può dire di altre religioni che pure – e vengo a un secondo aspetto di riflessione – godono di credito presso la cultura dominante.
Scorgo qui, infatti, la contraddizione d’una impostazione culturale – quella prevalente in ambito accademico, giornalistico e intellettuale – che, quando si tratta di cultura cristiana, rilancia ossessivamente il mantra della laicità, mentre di fronte ad altre, islamica in primis, ripiega docile sul ritornello della tolleranza, pur consapevole che minoritarie ma non irrilevanti frange musulmane calpestano i più elementari diritti delle donne. Ho trovato intellettualmente onesta, in questo, l’autocritica della femminista Ritanna Armeni: «Sento ancora il rimorso per non aver detto nulla sulla scomparsa di questa ragazza di origine pakistana, È stata un’omissione, un peccato che considero grave».

Rispetto a ciò, registro un secondo profilo contraddittorio, vale a dire quello d’una cultura progressista che si fa carico – e giustamente – d’un tema fondamentale come quello della donna, eppure fatica, silenziata dal politicamente corretto, a chiamare in causa ciò che dicevo poc’anzi, ossia la violenza che caratterizza tanti contesti familiari islamici. Faccio mie, in proposito, le parole di un’altra giornalista, la francese Eugénie Bastié che, su Le Figaro, ha scritto che alcuni «ossessionati dall’idea che il sessismo sia una malattia occidentale, rifiutano la possibilità di un patriarcato d’importazione».

Richiamati i progressi civili donatici dal cristianesimo e il permanere delle contraddizioni laiche e progressiste, il mio ultimo pensiero va alle donne islamiche che hanno il coraggio di ribellarsi. Penso – andando anche oltre alla vicenda della povera Saman Abbas – ad Ayan Hirsi Ali, somala che aveva 26 anni e viveva in Kenya quando il padre l’aveva informata del suo matrimonio per procura con un cugino residente in Canada. Il volo dal Kenya al Canada faceva scalo a Francoforte; lei ne ha approfittato per scendere, chiedere asilo e iniziare una nuova vita fondando, nel 2007, la «Ayaan Hirsi Ali Foundation» per «proteggere e difendere i diritti delle donne in Occidente dall’oppressione giustificata con la religione e la cultura».
Ancora, esemplare è la storia di Waris Dirie, somala anch’essa, ex top model tra le più affermate, impegnata contro le mutilazioni genitali femminili e che aveva 12 anni quando il padre le ha presentato un uomo anziano dicendole che ne sarebbe diventata sua moglie. È scappata di notte nella savana, riuscendo miracolosamente a raggiungere la capitale Mogadiscio dove una zia materna, impietosita, ha rifiutato di riconsegnarla alla famiglia.

Ora, ritengo quelle di Ayan Hirsi Ali e Waris Dirie – ambedue disconosciute da genitori e fratelli – siano storie significative. Di più: credo siano esempi che dovremmo far conoscere, così che il loro coraggio possa continuare a camminare sulle gambe di altre donne e che tragedie come quelle di Saman Abbas non abbiano a ripetersi.

 

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Cons. Gianluca Cavada

 

 

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