News immediate,
non mediate!
Categoria news:
L'INTERVISTA

INTERVISTA “OPINIONE” AD IRENE BERTUCCI * COMUNICAZIONE INTERPERSONALE: « LE RELAZIONI AL LAVORO / I RAPPORTI IN FAMIGLIA / I CONSIGLI PER FARSI CAPIRE E PORRE FINE AI “QUI PRO QUO“ » (VIDEOPRESENTAZIONE LIBRO “ NON FRAINTEDERMI “)

Scritto da
09.53 - lunedì 29 novembre 2021

 

Intervista di Luca Franceschi

 

Dottoressa Bertucci, quali sono le indicazioni per potere gestire al meglio le relazioni al lavoro e le dinamiche in ufficio?

In ufficio passiamo tempo con persone che non abbiamo scelto, verso le quali usiamo una cortesia che è il prodotto sociale di una regola relativa allo spazio condiviso. Fino al Covid la nostra società ha vissuto convinta che il modello di “lavoro in presenza” fosse l’unica via percorribile per la produzione. Poi sono arrivati i lockdown e lo smartworking a rivoluzionare il contesto. Ora che il Governo ci ha imposto di tornare al lavoro, gli animi si sono divisi tra chi è felice di rientrare e chi proprio non ne vuole sapere di abbandonare i ritmi casalinghi – forse più umani – per tornare a relazionarsi con i colleghi dal vivo, tra caffè alla macchinetta, sguardi di sbieco, pranzi alla mensa con i simpatici e piccole scaramucce quotidiane con gli antipatici. Lavorare in presenza -insomma- sarebbe un peso sul cuore. Non è un caso che si parli di cuore, emozione, stato d’animo. Qui risiede il nocciolo della questione comunicativa.

Al lavoro noi siamo la parte pubblica di noi, per cui dovremmo essere capaci di mantenere riservata la nostra dimensione privata. In ufficio noi siamo il dirigente, il funzionario, il medico, il giornalista e anche l’estetista, il carrozziere, la segreteria, il commesso. Mentre nella vita personale siamo Mario, Francesca, Alberto, Chiara, padre, sorella, amico, compagna, appassionati di mare, montagna, yoga, calcio, cinema, mostre. Con gusti precisi in fatto di cibo, colori, musica, abbigliamento, accessori, hi-tech ecc. Detto questo il problema, più che il collega odioso, è chi fa coincidere la propria identità con il proprio ruolo sociale e non comprende che nella vita abbiamo funzioni e livelli specifici. In ufficio, io sono Irene Bertucci al lavoro, e non l’intera parte di me. Se investo il riconoscimento di me stessa e della mia affettività nell’àmbito del lavoro, nel rapporto con il capo e con i colleghi, metterò dentro la dinamica professionale dei temi che sono estranei e propri di altri setting personali.

 

 

Lei che è esperta di comunicazione interpersonale, quali consigli si sente di dare a chi vive, sul posto di lavoro, incomprensioni di relazione?

Nascono conflitti e malintesi tutte le volte che io o il collega pretendiamo dall’altro un livello di pazienza, di comprensione o finanche di affetto che ci si aspetta dalla famiglia e dagli amici. Ci sentiremo delusi, irritati o risentiti e scaturiranno delle reazioni personali inadatte al luogo lavorativo. Quindi la domanda che ne esce è: “come fare con il collega che non piace?”. Non esiste la formula perfetta contro gli insopportabili. Ma esiste in comunicazione l’opportunità di gestire le cosiddette iper-reazioni, che si presentano tutte le volte che una parola, una frase, uno sguardo o un movimento dell’altro ci mettono improvvisamente di cattivo umore oppure sono l’occasione per una discussione che spesso ha a che fare con questioni personali e non con il progetto professionale. “Sei superficiale”, “Sei incoerente”, “Sei presuntuoso” che centrano con il piano di lavoro? Queste accuse creano cortocircuiti comunicativi.

 

 

Dottoressa Bertucci, quali sono le cause principali delle iper-reazioni?
Sono due. Immaginiamoci Luca e Paolo che collaborano su un progetto, lavorano sodo, C’è stima reciproca. Una mattina Luca dice: “Possiamo parlare dell’avanzamento del progetto stamattina”, “Sei sempre sul pezzo tu, a far bella figura con gli altri” risponde Paolo sbuffando. Questo scambio, solo due frasi, è il là per una discussione fatta di “come ti permetti”; “lo sappiamo tutti come sei”; “tu non stai bene oggi”, “io dico quello che mi pare”. Se Luca  riflettesse un secondo in più potrebbe capire che non c’è un nesso logico tra l’argomento della discussione – il progetto a cui anche Paolo si dedicano – e la strana replica di questa mattina. Luca invece di prendere sul personale l’inutile aggressione del collega potrebbe stemperare e rimanere sul contenuto della sua richiesta. “Certo che mi fa piacere fare bella figura e mi piacerebbe la facessimo anche insieme. Dimmi tu quando te le senti oggi di fare il punto della situazione”. Oppure potrebbe sdrammatizzare: “Stamattina ci vuole il caffè con doppio cornetto, ce lo prendiamo insieme?”.

La regola comunicativa è che per interrompere una reazione non congrua, dovuta a un sentimento negativo con qualunque origine – chissà quale nervosismo personale muove Paolo – dobbiamo portare dentro la relazione un’altra emozione positiva. Ho il ricordo di un barista che di fronte a una mia richiesta di un caffè lungo, freddo e al vetro, mi rispose scocciato “e magari lo vuole pure macchiato e scremato?” La reazione immediata sarebbe “ma che maleducato” o dire “lei fa il barista, no? E allora faccia il caffè come le ho chiesto” con conseguenze nefaste sul prosieguo della conversazione. Io sorrisi e dissi: “Macchiato no, però vorrei un bacetto”, lui mi guardò disorientato ma abbozzò un sorriso. Cortocircuito disinnescato. Non c’era un nesso logico tra la mia richiesta e la sua risposta. Lui agiva la sua rabbia su di me, ma che bisogno c’è di lasciarsi coinvolgere da reazioni altrui emotivamente incoerenti? Non si tratta di essere Zen, ma di essere consapevoli.

 

 

La seconda causa delle iper-reazioni la possiamo spiegare attraverso un esempio?
Francesca è una dirigente del Ministero del Lavoro, assunta per via di un rapporto personale e diretto con il suo capo che all’inizio dell’impego le dice: “scrivimi per qualunque aggiornamento e questione e io ti rispondo via mail”. Su quattro mail in due mesi, lui risponde solo alla prima. Francesca è arrabbiata, delusa, si sente svalutata dal suo capo. Vorrebbe lasciare il posto di lavoro e anche dirgliene quattro. Un momento però. Il fatto che il capo non risponda alle mail come promesso cosa ci dice di lui? Forse non ha avuto tempo, non ha visto le mail o è un bugiardo o comunque incapace di tenere fede a una promessa. Ma tutto questo cosa c’entra con il fatto che Francesca si sente svalutata? Un bugiardo è un bugiardo punto, è una caratteristica che non ha nulla a che fare con i sentimenti di Francesca, piuttosto racconta il suo modo di fare e di rapportarsi agli altri.
Francesca ha vissuto in una famiglia in cui il padre era poco presente e da bambina le prometteva delle gite o dei regali che poi puntualmente dimenticava. Francesca ha sofferto molto e oggi è molto sensibile di fronte a qualunque mancanza. Il comportamento del capo ci racconta qualcosa su di lui, mentre l’iper-reazione di Francesca ci informa su di lei. Non esiste un nesso di casualità ed effetto tra la mail non risposta e la disperazione di Francesca.
Per evitare fraintendimenti bisogna riflettere sulle nostre iper-reazioni, capire se sono consone al contesto o se vengono da altre parti di noi. Dobbiamo osservare gli altri per quello che sono e non per l’emozione che ci provocano, che deriva da necessità personali profonde. Nel caso di Francesca da un bisogno di considerazione disatteso. Al lavoro, se reagiamo esageratamente di fronte a un comportamento, dobbiamo valutare cosa appartiene all’altro e cosa a noi, in termini di comunicazione ed emotività.

 

 

Nel lavorare fianco a fianco quali altre dinamiche conflittuali possono nascere, anche a proposito degli “schemi mentali”?

Altri errori tipici che si commettono in un ufficio nelle relazioni è credere che tutti ragionino nello stesso modo. Invece il cervello funziona per programmi logici di tipo binario che portano, per esempio, ad assumere una particolare decisione, a lavorare secondo una visione d’insieme o di dettaglio, a ragionare per associazione o dissociazione. Se abbiamo schemi mentali diversi probabilmente ci fraintenderemo. Ne sono stati individuati ben 60, di cui 14 sono i principali, utili per comprendere bene come funzionano le relazioni con i colleghi.

I “ma però” e i “si certo”:
Tutti hanno quel collega, apparentemente noioso -un “ma però”- che di fronte a qualunque argomento, a prescindere che ci abbia riflettuto, non è d’accordo e avanza domande e osservazioni in contrasto. Ci sarebbe da perdere la pazienza se non fosse che si tratta di attacchi personali, ma di reale interesse. Solo che lui per capire bene una questione ha bisogno prima di dissociarsi e solo poi di associarsi. I “sì certo” -invece- sono facili, trovano punti di accordo su tutto e solo in un secondo momento faranno notare se sono in disaccordo. Tu sei un “sì certo” o un “ma però”?

I “generali e i particolari”:
I generali, di fronte a un nuovo progetto, preferiscono valutare la situazione complessiva e soffermarsi sui dettagli solo in un secondo momento. I particolari, al contrario, hanno bisogno di pensare partendo dalla fine: l’obiettivo finale, la descrizione delle criticità, casi simili e solo poi vogliono accedere al concetto generale. Va da sé che se voi siete generali e il vostro capo particolare, lui vi considererà prolissi e dispersivi. Nella situazione contraria potreste passare per essere additati come sbrigativi.

I “verso” e i “via da”:
Ognuno di noi, quando decide di fare qualcosa, o lo fa perché avverte un certo disagio e vuole allontanarsi dalla causa del malessere oppure perché vuole raggiungere un maggiore grado di soddisfazione e benessere. Il verso dice “Mi piace il mio lavoro, ma vorrei cambiarlo per avere più tempo da dedicare alla mia famiglia”; il via da “Mi piace il lavoro, ma vorrei cambiarlo perché ho poco tempo personale”. Per motivarli dobbiamo usare il loro schema mentale; si potrebbe proporre ad entrambi lo smart-working il venerdí e il lunedí mattina per avere più tempo per la famiglia oppure per evitare la mancanza di tempo personale. La proposta è la medesima, ma sarà compresa e risulterà più motivante se rispettiamo il modello comportamentale, mentale e linguistico di riferimento.

 

 

Ciò che diciamo (e scriviamo) cosa e quanto può ingenerare nell’interlocutore?

È importante sapere che tutti noi quando parliamo nascondiamo una parte delle informazioni, generalizzandole o cancellandole. Spiegare tutto ciò che è legato a un pensiero o a un’esperienza richiederebbe infatti molta energia e un fiume di parole. Questi dati sottratti sono all’origine di molti fraintendimenti. “Questo lavoro mi frustra, non ne posso più”; “Cosa ti frustra oppure è qualcuno in particolare, magari il capo?” “No, non il capo, ma due colleghi lavorano male e sono scostanti”. Quindi non è il lavoro, ma due persone specifiche, solo che il cervello aveva creato una cancellazione e generalizzato l’esperienza. Se non chiariamo cosa c’è dietro i dettagli mancati le conversazioni potrebbero trasformarsi in conflitti. “C’è incoerenza nel tuo modo di portare avanti il lavoro”. “Vuoi dire che tu lavori bene sul progetto e io no? “Si, penso che non dedichi il tempo necessario”. “E chi sei tu per dirlo, il capo?”.

È un patatrac! Vediamo come disinnescare il conflitto: “C’è incoerenza nel tuo modo di portare avanti il lavoro”. “In particolare dove trovi che non sia bene fatto o come pensi che dovrei fare?”. “Dico questo perché ho notato che hai dato disponibilità anche per un altro progetto e penso che non avrai abbastanza tempo per entrambi”. “Credi che quattro ore tutta la mattina bastino? Il secondo progetto è piccolo e lo porterei avanti un paio d’ore nel tardo pomeriggio. “Potremmo relazionarci ogni due giorni sul reciproco avanzamento cosí da essere entrambi tranquilli. Che ne pensi?“. “Mi sembra una buona idea”.

 

 

I suoi, dottoressa Bertucci, sarebbero consigli semplici per migliorare le relazioni di lavoro, ma bisognerebbe che ci fosse la volontà di cambiare e migliorare…

Il segreto della comunicazione in questo caso è di scoprire le generalizzazioni e le cancellazioni. Inoltre non bisogna mai farsi agganciare da una critica o da un tema personale e bisogna restare sempre sul tema della questione o della contesa: è una strategia sicura contro ogni conflitto. La comunicazione strategica al lavoro è una questione interessante, a volte sofisticata, certamente fondamentale nella vita quotidiana in ufficio. Si diventa degli ottimi comunicatori al lavoro quando comprendiamo che ognuno interpreta la realtà con i propri schemi, meccanismi inconsci e filtri cognitivi che vanno rispettati per creare scambi comunicativi favorevoli e vantaggiosi. Abbiamo fatto alcune riflessioni e parlato di strategie, fin qui. C’è dell’altro e forse non ci sarà mai la parola “Fine” perché infinite sono le relazioni, le occasioni di incontro o di scontro.

 

 

Cambiamo argomento ed usciamo dal mondo del lavoro:  quale suggerimento si sente di dare ai genitori ed ai figli riguardo il potere dialogare in modo “equilibrato” in famiglia, ben sapendo che “eliminare” gli smartphone dalle nostre mani è molto difficile?
Il problema degli smartphone è ormai più un problema sociologico. La questione della comunicazione parte da lontano, dal linguaggio che tutti, genitori e figli, abbiamo introiettato da bambini. Frasi, apparentemente innocue, come: “Se vai bene a scuola papà è contento” oppure “La mamma ti compra il regalo se fai il bravo”, “Niente compiti, niente parco”, “Non far questo perché fai stare male nonna”, “Sei un egoista a star fuori sempre con gli amici” hanno generato nella nostra società dei grossi equivoci. Siamo cioè cresciuti convinti che il nostro comportamento generasse le emozioni dei nostri genitori e siamo tuttora adulti persuasi che le nostre emozioni dipendano dagli altri.

Tutto ciò che gli altri fanno o dicono non c’entra niente con i nostri stati emotivi, che dipendono invece dai nostri bisogni più profondi. Se verranno soddisfatti saremo felici, altrimenti avremo delle reazioni negative. Siamo stati totalmente diseducati nella comunicazione, perché parliamo convinti che il nostro sentire arrivi dagli altri e non da dentro di noi. Questo è l’errore gravissimo che commettiamo. In casa, in famiglia, usiamo un linguaggio a volte svalutante perchè crediamo che quando proviamo un sentimento negativo, questo dipenda da ciò che l’altro ci ha fatto e lo giudichiamo secondo vari livelli di torto. Non è semplice la questione, né la soluzione. Bisogna rivedere il modo di parlare che usiamo in famiglia.

 

 

Perché la parola può sedurre, “fecondare”, attrarre, arrivare a “fare innamorare” o a sposare un credo religioso, un sentire politico, un’ideologia sociale?
Perché le parole sono strettamente collegate alle emozioni. Ogni parola genera biologicamente un sentimento o una sensazione interna. Usare le parole giuste e qualche buona strategia di persuasione porta facilmente a creare credi o ideologie nei quali le persone si vogliono riconoscere, perché le parole che ascoltano in quei discorsi le portano a un sentire interiore che è quello che desiderano.

 

 

Perché il suono “arriva prima” dello scritto nella mente umana a toccare il delicato mondo della percezione?
Per una questione puramente fisica. La comunicazione è divisa in verbale e non verbale e i gesti sono nati decisamente prima delle parole; avevano anche tutte le carte in regola per diventare il canale prioritario di comunicazione tra gli esseri umani. Non lo è diventato perché lo svilpuppo del nostro sistema fono-acustico ha favorito l’uso delle parole ai gesti. Per diversi motivi, primo tra tutti il fatto che realizzare fonicamente una parola richiede una energia minima rispetto al realizzare un gesto. Non impaccia infatti l’esecuzione di altre attività proprie dell’uomo, che dovrebbero essere sospese se parlassimo solo con il corpo.
Inoltre le parole si creano anche in condizioni di bassa o zero luminosità, mentre i gesti richiedono la visione reciproca in buone condizioni di luce. Questa è una spiegazione tecnica del perché la voce arriva prima dei gesti. Per il resto la voce riproduce all’esterno la nostra prima intenzione interiore ed è per questo che siamo molto sensibili alla percezione che deriva da questo suono. Allo stesso tempo noi scegliamo il tono e il suono della nostra voce nella fase adolescenziale e teniamo quel tipo di voce tutta la nostra vita. Non sto parlando del timbro, ma del tono e del colore che diamo alla voce. C’è chi naturalmente ha una voce più “simpatica” e chi più “autoritaria”. Uno dei segreti della comunicazione senza fraintendimenti è quello di imparare a governare il colore della voce in base alle sensazioni che vogliamo restituire al nostro interlocutore.

 

 

Le parole di amore, di tenerezza, di desiderio, di stima, di apprezzamento vengono a suo avviso quotidianamente pronunciate dal chi si ama, o spesso vengono dati per scontati dei sentimenti e nemmeno più “declarati”?
Credo che ci siano coppie in cui si arriva a dare per scontati i sentimenti e coppie più abili a tenere alta la fiamma delle sensazioni. Nelle relazioni il dialogo è tutto, soprattutto è importante spiegare cosa è importante per me e cosa per te , cosa fa sentire amato e cosa te, cosa fa stare bene me e cosa te. Ognuno dovrebbe accogliere il racconto dell’altro e amarlo anche secondo “le sue regole”, ovvero secondo le sue necessità e desideri. L’errore in coppia sta nel pensare che entrambi pensino e reagiscano nella stessa maniera e che il mio modo di fare, di comportarmi e amare debba andare bene all’altro a priori.

 

 

I ragazzi “digitali” si rendono conto che vi sono dei limiti oggettivi nel pensare di potere sintetizzare tutto (pochi secondi di video in Tik tok…) e/o volere sostituire alla parola scritta le immagini come le emoticon o foto/video? Si rischia di perdere la capacità di pensare e strutturare dei concetti?
La nostra società sta andando verso un uso massiccio delle immagini e un impoverimento del linguaggio, verso un fenomeno di ipo-cognizione. In linea generale le fasce sociali con una bassa istruzione rischiano di generare più facilmente rabbia e aggressività. Il problema di fondo è che meno parole si conoscono e si usano, meno si è capaci di nominare i sentimenti e comprendere le sensazioni. Non me la sento di demonizzare i social e neanche sono in grado di fare una previsione realistica. Sono attenta a vedere come la comunicazione sta cambiando per i nostri giovani. Attualmente comunicano meno, nonostante l’esposizione della propria vita sui Social. Non è una nuova era della comunicazione, ma una della visibililità a ogni costo. A costo di filtri, finti panorami e balletti su Tik Tok. Ma io sono di troppe generazione fa per giudicare.

 

 

Perché spesso accade che negli intenti comunicativi la fonte voglia esprimere un concetto “bianco” e chi ascolta lo percepisca “nero”: in pratica, perché tante volte chi recepisce il messaggio non lo sa cogliere nel suo valore di interezza e profondità e lo distorce (magari inconsciamente…)?
Perché l’interpretazione della realtà è soggettiva. O meglio è oggettiva per tutte le parole che si riferiscono ad oggetti. Bottiglia, telefono, cappotto, tavolo, autobus ecc hanno lo stesso significato per tutti noi, che condividiamo la stessa cultura. Ma appena usiamo parole astratte, come rispetto, onestà, amicizia, amore, famiglia, lavoro, benessere, ecc iniziano i problemi. Ognuno di noi interpreta queste parole secondo la qualità e la quantità delle proprie esperienze fatte fino a quel momento, secondo un processo di “predizione mediata”. Quindi quando parliamo con qualcuno lui applica tutta una serie di meccanismi inconsci e filtri cognitivi che possono produrre un significato diverso dal nostro. Cosí nascono i malintesi o i conflitti. A casa, in famiglia, con gli amici. Il mio libro parla dei filtri cha applicchiamo per interpretare la realtà e di ciò che accade nella nostra mente quando comunichiamo.

 

 

I social hanno portato elementi positivi nella comunicazione tra le persone?

Attualmente si parla di come fare buona comunicazione sui social, ovvero si chiacchiera tanto di qualcosa che in realtà non esiste, perché manca la condizione fondamentale della relazione: la presenza dell’altro. Quindi sui Social comunichiamo per lo più con noi stessi da una vetrina aperta, rappresentata da Facebook e Instagram principalmente. L’iperconnessione del nostro secolo ha dato la nascita a diversi fenomeni. Primo tra tutti il diritto ad essere compresi. Poiché diamo valore alle nostre parole, soprattutto quando sono mosse da buone intenzioni, abbiamo la pretesa che l’altro ci capisca e ci creda. Anche quando parliamo di temi che conosciamo poco e di cui abbiamo letto in modo superficiale o su siti di cui non conosciamo la fonte. Il cittadino medio non conosce la differenza tra leggere un quotidiano on-line rispetto al sito laveritaminutoperminuto.it.
Una volta in tv si cercava di portare all’attenzione i contenuti, oggi appena si può ci si allontana dall’argomento centrale e si va sul personale, contestando non l’affermazione di chi parla, ma l’interlocutore stesso. “Non sei d’accordo sul Ddl Zan, allora sei omofobo”; “Hai paura del vaccino, sei un complottista No vax”; “Sei contro il green pass, sei un fascista”. Parliamo e pensiamo di comunicare, in virtù del nuovo diritto ad essere compresi insultiamo, offendiamo, urliamo contro chiunque non la pensi come noi. La violenza verbale che si traduce in un attacco personale sta diventando socialmente “normalità” sui social, che sono il luogo perfetto per il conflitto. Fior di personaggi noti, giornalisti, politici bloccano, denigrano e irridono chi tra i follower osa non essere d’accordo. E attaccano quelli che usano frasi sconvenienti o forti contro di loro. Sui social stiamo legittimando un linguaggio basato sull’aggressione

 

 

Può sintetizzare per il lettore i suggerimenti per organizzare le “relazioni  digitali”?

Ecco 8 strategie per risolvere – a nostro favore – i conflitti sui social:

1. Resta ancorato all’argomento e non ti far innervosire da giudizi personali.
– “Sei un cretino”; “Sei un’incompetente”; “Sei un quaquaraqua”.
– “Mi dispiace sentirti dire una cosa del genere su di me, ma rispetto alla questione del lavoro in presenza in che modo vorresti impostare le regole dello smart-working per i dipendenti pubblici?”.

Non bisogna mai reagire alla provocazione personale, mentre si cercano le parole adatte per restare sull’argomento del contendere. Chi accusa sta cercando di spostare l’attenzione dal tema centrale a un confronto io/tu, giusto/sbagliato, buono/cattivo che lascerà sicuramente uno dei due ferito sul campo di battaglia. Le dicotomie richiedono implicitamente agli altri di schierarsi, di definire il nemico, il cattivo; se finiamo noi ad essere i malvagi, avremo una ricaduta importante sulla nostra immagine sociale e pubblica.

2. Chiedi spiegazioni sul significato che una parola ha per te e per l’altro.

– Paolo: “Questo tuo argomento è ridondante e irrispettoso”.
– Carlo: “Posso chiederti cosa intendi tu per irrispettoso?”.
– Paolo: “Certo ignorante, significa che parli senza considerare ciò che io ho postato ieri”.
– Carlo: “Se significa questo ti confermo che ho letto il tuo post, non ti ho mancato di rispetto. Ho chiara la tua opinione, allo stesso tempo ti chiedo di considerare anche una seconda opzione…”.

Paolo cambierà idea o sarà propenso verso la nostra opinione? Probabilmente no. Allora perché chiedere chiarimenti sulle parole? In primo luogo perché aiuta a rimanere centrati sul contenuto della questione, se reagissimo ad “ignorante” inizierebbe un conflitto a base di epiteti. In secondo luogo perché le conversazioni sui social restano scritte e mostrarsi lucidi, calmi ed equilibrati farà una buona impressione su chi ancora non ha preso posizione. Gli amici stretti di Paolo invece daranno ragione a lui a qualunque costo.

3. Fai attenzione alle generalizzazioni e alle cancellazioni.
– “Tutti gli immigrati sono delinquenti”.
– “Sei sicuro proprio tutti o magari parli di uno in particolare?”.
– “Sì sì… il badante di mia zia è sparito rubando delle cose”.
– “Capisco, mi dispiace. Conosci altri delinquenti?”.
– “No, ma se ne sente di ogni”.
– “Certo molti arrivano in povertà, ma molti altri si integrano bene”.
– “Si è vero ma la mia esperienza è pessima”.
– “Sono d’accordo, tua zia ha avuto sfortuna”.

Tutti noi quando parliamo nascondiamo una parte delle informazioni, generalizzandole o cancellandole. Spiegare tutto ciò che è legato a un pensiero o a un’esperienza richiederebbe infatti molta energia e un fiume di parole. Questi dati sottratti sono all’origine di molti conflitti.

Ecco un altro esempio:
– “Un sacco di gente non sa quello di cui parla”.
– “Stai parlando di me oppure è un discorso in generale?”.
– “Si, dico in generale che spesso le persone non si informano e parlano per sentito dire”.
– “E se ti riferissi a qualcuno chi sarebbe?”.
– “Penso a Francesco che ieri parlava di Ddl Zan senza conoscere in dettaglio la Legge”.

Quindi non si tratta né di te né di tutta la gente ma uno in particolare, solo che il cervello aveva creato una cancellazione e generalizzato l’esperienza. Prima di entrare in un conflitto accertiamoci di cosa veramente voglia dire l’altro.

4. Rivolta la critica dell’altro contro di lui
– “Sei un dipendente pubblico, come puoi parlare tu di investimenti e tasse?”
– “Proprio perché sono un dipendente pubblico con uno stipendio medio, mi informo sulla possibilità di una piccola attività in proprio, quindi leggo di investimenti e tasse.”

Bisogna esercitarsi un po’ ad avere la risposta pronta, a riconoscere il valore della critica e come possa tornare utile alla nostra ragione.

5. Chiedi prove, dati, conferme
– Il vaccino è pericoloso perché ci impiantano un microchip per controllarci.
– Posso chiederti dove hai letto questa notizia?
– Sul sito vaccinopericoloso.it.
– Oltre a questo sito ci sono altri ufficiali in cui hai letto la notizia o pubblicazioni scientifiche a conferma?

Lui e gli amici microchippisti e terrapiattisti continueranno ad informarsi su vaccinopericoloso.it, ma se ti legge qualcun altro gli avrai dato modo di riflettere e anche di apprezzare il tuo savoir faire on line.

6. Proponi la doppia alternativa
Bruno Mastroianni sul suo libro “La disputa felice” introduce l’uso di una parola potente per disattivare i conflitti: Dipende.
– “I contrari al green pass sono dei pazzi complottisti”.
– “Dipende, da una parte il green pass è uno strumento utile per controllare la pandemia e in particolare l’emergenza sanitaria, dall’altro avere il green pass non assicura di essere negativi al Covid e neanche certifica dei luoghi Covid free”.

È importante evitare tutti gli argomenti che portino tagli netti tra giusto e sbagliato; noi e loro; a favore o contro.
Il “dipende” proporre l’accettazione del punto di vista altrui e invita a considerare la complessità della questione, che non si può risolvere in una risposta unica.

Maestro nell’arte del “dipende” è stato Gesù:
– “E’ lecito o no dare il tributo a Cesare?”.
– “Date a Cesare quel che è di Cesare, a Dio ciò che è di Dio”.

7. Ignoralo
– “Non sai neanche scrivere in italiano, chi vuoi che ti stia a sentire?”.
– “Hai ragione, mi accorgo adesso dell’errore. Grazie per avermelo fatto notare.”

Con alcuni non vale la pena discutere. Se questo è il caso, rispondete con una gentilezza spiazzante per tutti: per lui, per te, per chi legge.

8. Litiga
– Tutti quelli che erano in piazza erano dei fascisti, pure tu.
– Ma sai il significato della parola almeno?
– Certo che lo so, sei tu che sei andato in piazza e non sapevi neanche cosa facevi.
– Io sono andato a protestare contro il green pass.
– Sei un No Vax, un povero idiota.
– Idiota lo dirai a tuo fratello, torna a parlare con toni adeguati.
– Tu hai offeso mio fratello, se ti prendo ti faccio passare la voglia.
– La voglia passa a me di avere a che fare con cerebrolesi come te.
– Io ti cancello, sei ottuso come una capra.
– Ecco bravo cancella che almeno non sento in discorsi di un cretino.

Litiga se è una giornata “No” e ti vuoi sfogare. Litiga se il tuo obiettivo è la visibilità sul web. Ma cerca di farlo senza scadere nel ridicolo, senza scendere a un livello cosí basso che la gente di guarderà come fa con alcuni protagonisti del “Grande Fratello”.

 

 

Per concludere, Dottoressa Bertucci: a suo avviso quali errori di comunicazione interpersonale dovremmo evitare nell’approcciarci agli altri?
Alcuni aspetti li abbiamo considerati durante questa intervista. Potremmo riassumere le regole di base, che sono: smettere di essere iper-giudicanti; non farsi agganciare da provocazioni che portano la discussione sul personale; imparare ad analizzare, utilizzare e disinnescare i filtri con i quali l’altro interpreta la realtà delle nostre parole; imparare ad usare un linguaggio anti-fraintendimento cosí come è descritto nell’ultimo capitolo del libro.

 

 

 

*

NON FRAINTENDERMI! FINE DEI QUI PRO QUO IN UFFICIO, A CASA, CON GLI AMICI. COME COMUNICARE SENZA PREGIUDIZI E INCOMPRENSIONI – DI IRENE BERTUCCI

Un manuale di sopravvivenza alle relazioni con amici, colleghi e parenti – In libreria per HarperCollins dal 7 ottobre (336 pagine, euro 18.50).

Fraintendersi è molto più facile che capirsi. Perché parlare non significa comunicare. Quanto valgono allora le parole quando comunichiamo? Si possono capire le reali intenzioni delle persone? Ci si può fidare del linguaggio del corpo o c’è ben altro? Da dove nascono i disaccordi? Cosa significa davvero comunicare bene, in ufficio, a casa, in ogni settore della vita, a ogni ora?

Tutte domande alle quali dà una risposta l’autrice del libro, Irene Bertucci. Perché, se si potesse capire a un primo sguardo il modo di ragionare dell’altro, sarebbe come avere a disposizione gli occhiali a raggi X della comunicazione.

Le persone agiscono mosse da condizionamenti di varia natura che si formano dall’infanzia all’ adolescenza e che segnano l’identità e lo stile di comunicazione della nostra vita adulta. Le prime esperienze, le parole preferite, i valori, il tono di voce, le differenze anatomiche del cervello, l’atteggiamento del corpo, la costruzione della frase sono dei sistemi – meccanismi inconsci – che rivelano di noi ben più che il semplice significato di quello che abbiamo detto. È proprio l’incapacità di leggere questi meccanismi a provocare equivoci che rendono difficili le relazioni.

“Uno parla e l’altro capisce ciò che più gli pare e piace – spiega l’autrice – perché alle tue parole, al tuo racconto, lui applica i suoi filtri con cui dà significato alla realtà. Riconoscere, usare, disinnescare questi filtri è il segreto per evitare contrasti tra colleghi, discussioni in famiglia o con gli amici, divergenze con il capo. È fare il modo che l’atro capisca secondo le tue intenzioni e non le sue”.

Si tratta di comporre frasi e contenuti che tengano conto di programmi mentali subconsci, di tendenze linguistiche, dei principi della persona con cui si parla, per poter confezionare discorsi con un vocabolario a prova di conflitto. Giocando sul filo dell’ironia, pur mantenendo un contenuto scientifico, Non fraintendermi! svela al lettore gli strumenti validi e concreti alla base di una comunicazione efficace, con esempi reali e situazioni tratte dal vissuto quotidiano. Un approccio multidisciplinare dove trovano spazio psicologia cognitiva e comportamentale, linguistica avanzata e teorie della comunicazione, neuroscienza e antropologia spiegate con semplicità e immediatezza.

L’obiettivo di questo libro è dare strumenti pratici per capire gli altri e per confezionare frasi, messaggi, discorsi che vengano compresi secondo i nostri veri propositi. Conoscere il buon funzionamento della comunicazione senza fraintendimenti è davvero facile, basta sapere come farlo. Irene Bertucci, giornalista, esperta in comunicazione e neurolinguistica, attraverso un linguaggio tecnico e preciso ma accessibile a tutti, fatto di esempi concreti, di test da effettuare, di piccoli esercizi che tutti possiamo fare, spiega gli errori in cui cadiamo involontariamente e ci insegna a capire meglio gli altri e noi stessi.

 

 

 

*

IRENE BERTUCCI: IL PROFILO PROFESSIONALE

Irene Bertucci, giornalista ed esperta in neurolinguistica, nasce a Roma il 29 aprile del ’74 e inizia a parlare a soli 6 mesi, evidentemente la comunicazione era nel suo DNA.

Cresce in una famiglia di “gente con la valigia” e ha vissuto un po’ ovunque nel mondo. In assenza di radici ha creato tre luoghi che chiama casa, a Roma, Miami e Formentera.

È cresciuta incuriosita dalla diversità delle culture con cui veniva in contatto, è un’attenta osservatrice dei comportamenti altrui e appassionata di linguaggio. Quanto valgono le parole quando comunichiamo? SI possono capire le reali intenzioni delle persone? Quali meccanismi mentali guidano le scelte?

Nel 2000 si laurea in Scienze della Comunicazione alla LUMSA di Roma con una tesi in Semiotica, sulle problematiche del linguaggio non verbale.

Negli anni dell’Università segue numerosi corsi con speaker internazionali esperti di comunicazione e motivazione tra cui Richard Bandler, John Gray, Peggy Dylan, Edward De Bono, Roy Martina, Igor Ledochowski.

Si specializza in Programmazione Neuro Linguistica e Psicolinguistica Eriksoniana Conversazionale (Conversational Hypnosis).

Seguirà negli anni anche un profondo interesse per la Terapia Cognitivo Comportamentale a supporto della comprensione dei meccanismi psicologici nelle relazioni.

Alla laurea seguono tre Master: in Relazione Pubbliche presso Confindustria; in Coaching & Leadership con HRD Training Group; In Comunicazione Politica con la scuola di Claudio Velardi.

Nel 2001 fonda Eidos Communication, un’agenzia di comunicazione con al suo interno una Scuola di Comunicazione che offre corsi e Master nell’ambito del giornalismo e della comunicazione politica. La Scuola di giornalismo e comunicazione politica è tuttora attiva e forma regolarmente allievi che fanno pratica nelle redazioni giornalistiche più importanti e alla Camera e Senato.

Tra il 2001 e il 2021 crea, progetta e organizza più di 200 workshop aperti al pubblico in giornalismo, comunicazione e linguaggi della politica. Oltre a 150 corsi tra ufficio stampa, organizzazione di eventi, public affairs,  tecniche di scrittura giornalista ed Executive Master in Giornalismo Radiotelevisivo (38 edizioni);  Master in Comunicazione Politica e Marketing elettorale (20 ed.); Master in Comunicazione Pubblica ed Istituzionale (15 ed.); Master in Comunicazione della Moda (12 ed.); Master in Comunicazione aziendale (6 ed.).

In questi anni è invitata a tenere interventi di comunicazione alla Link Campus University; alla SIOI (Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale – Min. Affari Esteri); all’Università Federico II di Napoli e in molte altre organizzazioni pubbliche e private.

Dal 2018 insegna per la Scuola Nazionale dell’Amministrazione presso la Presidenza del Consiglio come docente di comunicazione strategica, interpersonale e neurolinguistica.

Tra i corsi: Strategie di Comunicazione efficace; Tecniche di scrittura persuasiva; Comunicazione Strategica per le reti consolari (Min. Esteri); Ufficio stampa e Media Relations; Public Speaking; Comunicazione telefonica e allo sportello; Comunicazione per il personale degli Esteri in partenza per le sedi estere; Comunicazione per la carriera prefettizia.

Ad Ottobre 2021 esce il suo primo libro “NON FRAINTENDERMI – Fine dei qui pro quo in ufficio, casa, con gli amici. Come comunicare senza pregiudizi ed incomprensioni.”(HarperCollins), un manuale di sopravvivenza alle relazioni con amici, colleghi e parenti.

Ma non tutto è stato oro in questo racconto biografico. Nel 2007, a soli 32 anni  la vita le mette davanti un ostacolo più grande del previsto, un problema di salute di quelli che fanno paura a tutti e per anni la battaglia diventa quella con un corpo traditore. Lei ha superato tutto con la consapevolezza che la vita è ogni momento presente e va vissuta con sconsideratezza e follia. Ha viaggiato più di prima, ha letto più di prima, ha amato più di prima.

Il suo sogno è quello di portare all’attenzione delle persone la comunicazione a un’età piú giovane possibile, non dopo i 40/50 anni, quando siamo tutti già strutturati nelle nostre certezze e paure. L’obiettivo ambizioso è di sensibilizzare una società virtuosa alla comunicazione efficace. Parlare non è comunicare. Condividere solo il codice non porta efficacia nella relazione, che ha bisogno di una logica partendo dalla consapevolezza dei modi diversi di ognuno di interpretare la realtà, le parole, i concetti.

Comunicare con l’altro è come visitare un Paese straniero: ognuno ha il proprio mondo personale e rappresenta una cultura diversa, da scoprire, da rispettare, da amare.

Categoria news:
L'INTERVISTA
© RIPRODUZIONE RISERVATA
DELLA FONTE TITOLARE DELLA NOTIZIA E/O COMUNICATO STAMPA

È consentito a terzi (ed a testate giornalistiche) l’utilizzo integrale o parziale del presente contenuto, ma con l’obbligo di Legge di citare la fonte: “Agenzia giornalistica Opinione”.
È comunque sempre vietata la riproduzione delle immagini.

I commenti sono chiusi.