Gentile direttore Franceschi,
ho volutamente atteso il deposito della polvere delle polemiche immediate, per provare invece a riavviare una pacata riflessione su di un tema, non solo di estrema attualità, ma che investirà di sé il futuro di questa terra.
L’increscioso episodio di Nambino di qualche settimana fa, con la grossolana esibizione di un turismo invadente, assordate e psichedelico “on air”, ha inciso una ferita nella naturale quiete dell’ambiente alpino, che è uno dei requisiti fondamentali della sua fascinazione, ma ha anche messo in luce alcuni elementi sui quali spingere il ragionamento.
Anzitutto il tema centrale della tutela di una idea diversa di montagna. Non uno spazio da sfruttare senza limiti, bensì un luogo capace di riconciliare l’individuo con le cadenze di ritmi di un vivere spesso persi nella crescente ed onnivora confusione dell’età della tecnica; uno spazio di presidio alla biodiversità e capace di valorizzare ciò che resta dell’antica cultura della montagna e della vita agro-silvo-pastorale che in essa si è sviluppata nei secoli.
Forse interrogarci sul percorso che ci ha portati fin qui non è superfluo.
Operatori turistici appassionati e ricchi di visione hanno trasformato, a partire dalla fine del XIX secolo, molte realtà montane in luoghi di un turismo rispettoso ed esigente. Nuove pratiche sportive si sono affermate, come ulteriore veicolo di un turismo che consentiva redditi e teneva viva la montagna in un’epoca di abbandono progressivo. Particolari climi sono apparsi utili alla cura di malattie specifiche e un rapporto di dialogo con la natura ha contribuito al compiersi di un processo sociale ed economico dove la montagna ha assunto ruoli attivi e non passivi, divenendo, nel tempo, partner e non avversario dell’economia e delle comunità locali.
Poi, le mode, le ricchezze, le ricerche estetiche e le mutevolezze del gusto sociale hanno cambiato i profili di quel turismo, aprendo, talora positivamente, molti luoghi alla fruibilità di tutte le classi sociali ed, al contempo, identificando alcune località come destinazione per clientele facoltose ed esclusive. In questo processo è sempre venuto meno il “dove”, ovvero la centralità del luogo e si è invece affermato il “come”, cioè le modalità di vivere la montagna da parte dei suoi abitanti e di un turismo sempre più veloce, distratto e tutto piegato sul consumo immediato ed effimero di tutto. Contemperare queste due esigenze è stata la sfida degli ultimi decenni; una sfida che, davanti a vicende come quella di Nambino Super G, appare evidentemente persa.
Oggi si tratta di ritornare alla “ricerca del tempo perduto”, ovvero di investire in politiche in grado di tenere in equilibrio opposte esigenze, attraverso un investimento che deve essere anzitutto culturale e solo poi economico e promozionale. In altre parole, non sembra più possibile ridurre tutto all’arte di legiferare, quando invece è necessario ricostruire un nuovo “sistema montagna” ed una complessità dentro la quale i diversi attori dello sviluppo, non solo possano trovare espressione di pari dignità, ma siano in grado di cambiare l’ordine delle priorità, riorientando la bussola della crescita verso nuovi e diversificati poli di attrazione.
Non è investendo sulla quantità, ma piuttosto sulla differenza, offrendo cioè un ambiente totalmente estraneo a quello urbano e proprio per questo attrattivo. Replicare in quota ciò che avviene in città, non è solo poco lungimirante, ma è dannoso ed inutile. Ciò che serve insomma è una nuova e più flessibile cultura politica del turismo, che sappia tenere in considerazione la domanda, ma anche i confini della potenzialità dell’offerta e la necessità di porre alcuni limiti invalicabili, pena la distruzione di un patrimonio e della stessa comunità della montagna.
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Michela Calzà
Consigliera Provinciale e Regionale Gruppo del Partito Democratico del Trentino
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Immagine tratta da video presente in pagina Facebook “SUPER G – Campiglio” – LINK