Sarà stato un nome di richiamo come quello di Giacomo Chiari (Getty Conservation Institute, Los Angeles), considerato un pioniere dell’impiego nelle tombe dell’antico Egitto di strumenti di analisi, portatili e non-invasivi, sviluppati per l’esplorazione spaziale, da Marte alla piramide di Tutankhamen. Sarà stata l’attualità del tema.
Qualunque sia la ragione, la Scuola dedicata all’analisi sui materiali per l’archeologia e i beni culturali (Amarch) ha raccolto quasi 300 domande tra chi opera in ambito accademico, ma anche in musei, soprintendenze e altri enti. Le registrazioni si sono chiuse ieri notte, l’iniziativa si svolgerà online su piattaforma Zoom mercoledì 10, giovedì 11 e venerdì 12 febbraio.
La Scuola è organizzata dall’Università di Trento con il laboratorio Bagolini di archeologia, archeometria e fotografia del Centro alti studi umanistici nel progetto “Dipartimento di eccellenza” del Dipartimento di Lettere e Filosofia e il laboratorio Beni culturali del Dipartimento di Ingegneria industriale e in collaborazione con il Dipartimento di Fisica.
Nella terza edizione saranno approfondite alcune tecniche sperimentali basate sui raggi X, che utilizzano i fenomeni della diffrazione e della fluorescenza e che trovano largo impiego nei campi della ricerca archeologica e della diagnostica dei beni culturali soprattutto perché rendono possibili analisi non invasive.
Nell’ultimo decennio l’introduzione nell’archeologia e nei beni culturali di rover (veicoli usati per l’esplorazione dei pianeti) e altri strumenti sviluppati per la ricerca spaziale ha permesso un avanzamento notevole nella possibilità di analisi e di conservazione. Il vantaggio deriva dal riuscire a “entrare” nei manufatti, di capire di cosa e come un oggetto è fatto e il suo eventuale stadio di deterioramento, senza doverlo trasportare in un laboratorio o doverlo comunque sottoporre ad analisi anche minimamente distruttive, attraverso micro-prelievi di materiale.