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OSSIGENO * ELEZIONI: “SEGNALEREMO I CANDIDATI CHE SI IMPEGNERANNO AD ABROGARE LA NORMA CHE CONSENTE DI INFLIGGERE FINO A 6 ANNI DI DETENZIONE PER DIFFAMAZIONE”

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13.56 - lunedì 29 gennaio 2018

Elezioni. Ossigeno segnalerà i candidati che si impegneranno ad abrogare la norma che consente ai giudici di infliggere fino a 6 anni di detenzione ai colpevoli di diffamazione.

Anche la prossima legislatura finirà senza abolire il carcere per i giornalisti?

Il 28 dicembre 2017, in Italia, la legislatura si è conclusa senza approvare il progetto di legge per abolire il carcere per diffamazione e senza fermare la piaga delle migliaia di accuse per questo reato avanzate ogni anno, in modo specioso, per scopi intimidatori, contro cinquemila giornalisti.

Ossigeno aveva predetto otto mesi fa che il progetto di legge stava finendo nel binario morto (leggi) e aveva indicato i modi per evitarlo.

Il Parlamento italiano tenta dal 2001 – cioè, da quattro legislature – di riformare l’articolo 595 del codice penale del 1930 e la legge sulla stampa del 1948, ma non ha mai cambiato nulla. Ultimamente, nella legislatura appena conclusa, i parlamentari sembravano vicini al traguardo. Tuttavia, era soltanto un’illusione.

I due rami del Parlamento non hanno mai accettato di approvare lo stesso testo del progetto di legge. Negli ultimi cinque anni, c’è stato un braccio di ferro tra innovatori e sostenitori dello status quo, che alla fine hanno prevalso. Il governo è rimasto a guardare senza intervenire.

Quindi, ancora una volta, l’Italia non ha mantenuto l’impegno solenne di abolire la legge che consente ai giudici di infliggere, a chi è ritenuto colpevole di diffamazione, fino a sei anni di detenzione (un record europeo, che vede l’Italia seconda soltanto alla Slovacchia).

Le Camere non hanno nemmeno preso in considerazione la possibilità di depenalizzare la diffamazione a mezzo stampa, come molte volte le istituzioni internazionali hanno esortato a fare. Nessuno dei 945 eletti al Parlamento ha proposto di depenalizzare la diffamazione.

Lo stesso risultato deludente si era verificato alla fine dei tre precedenti mandati legislativi, vale a dire nel 2001, nel 2006 e nel 2008.

Pertanto, la legge italiana che produce un così forte effetto raggelante sulla libertà di informazione è rimasta in vigore e almeno per un altro anno produrrà il suo chilling effect sulla libertà di informazione, produrrà un altro centinaio di pene detentive per diffamazione, come negli ultimi anni.

I dati italiani sono impressionanti. Soltanto negli ultimi cinque anni, cioè mentre il Parlamento stava cercando di approvare il “Costa Bill” (il disegno di legge che ha deluso tutti e non è mai stato approvato), i tribunali italiani hanno condannato ogni anno 155 persone (per lo più giornalisti) a pene carcerarie per diffamazione.

Nel quinquennio, le sentenze emesse hanno totalizzato 515 anni da passare in carcere. Al momento di rendere esecutive queste condanne, in realtà, i giudici hanno applicato effettivamente le pene detentive soltanto due volte, ai giornalisti Francesco Gangemi nel 2015 e Antonio Cipriani nel 2016.

I giudici hanno applicato misure alternative, come gli arresti domiciliari o l’affidamento ai servizi sociali. I giudici hanno sospeso tutte le altre pene detentive, a condizione che gli imputati non siano nuovamente condannati.

Comunque, ogni sanzione penale ha avuto un forte effetto condizionante sulla raccolta e sulla diffusione delle informazioni. Questo effetto intimidatorio è ampiamente potenziato dall’enorme e non contrastato abuso di accuse di diffamazione.

Una statistica ufficiale (vedi), proveniente dal Ministero della Giustizia, ottenuta e pubblicata da Ossigeno per l’Informazione, descrive la vasta dimensione di questo preoccupante fenomeno: negli stessi cinque anni 2013-2017 in cui il Parlamento stava discutendo il progetto di legge Costa, i tribunali hanno definito 29.520 processi per diffamazione.

Il 90% di essi si è concluso con l’assoluzione degli imputati. Per questi processi, gli imputati hanno sostenuto spese legali per un totale stimato in 270 milioni di euro. La maggior parte dei querelanti non è stata condannata a risarcire le spese legali al giornalista prosciolto dalle accuse.

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