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LANCIO D'AGENZIA

ISTAT * RAPPORTO ANNUALE – ITALIA: PRESIDENTE BLANGIARDO, « IMMIGRAZIONE STRANIERA TRA RADICAMENTO ED EMERGENZA / ELEVATO LIVELLO DI POVERTÀ ASSOLUTA / DISUGUAGLIANZE INDOTTE DALLA DAD » (REPORT PDF)

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23.38 - sabato 9 luglio 2022

 

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CAPITOLO 1
La ripresa tra ostacoli e incertezze
Dopo una crescita record nel 2021 (+6,6%), a inizio anno il Pil dell’Italia è tornato sui livelli di fine 2019, anche se con progressi non uniformi tra i settori. Dalla seconda metà dello scorso anno lo scenario internazionale si è gradualmente deteriorato per effetto di strozzature dal lato dell’offerta e di consistenti spinte inflazionistiche, esacerbate dall’invasione russa dell’Ucraina. Quest’ultima ha anche peggiorato le attese, così come il cambio di intonazione della politica monetaria. Coerentemente, le prospettive di crescita mondiali per il 2022 e il 2023 sono peggiorate e quelle per l’Italia, pur restando positive, sono in decelerazione. L’inflazione a giugno ha raggiunto l’8,0% per l’indice NIC, ai massimi da gennaio 1986, sospinta dai rincari delle materie prime, in particolare del gas naturale, il cui prezzo è aumentato di circa sei volte.
Guardando al futuro, la sfida della transizione ecologica – alla quale il PNRR dedica circa
85 miliardi di euro di investimenti – è particolarmente rilevante per il nostro Paese, che dipende dall’estero per oltre tre quarti dell’approvvigionamento energetico, principalmente di petrolio e gas naturale. Nell’ultimo decennio risparmi importanti sono stati conseguiti nei consumi dell’industria, molto minori quelli delle famiglie mentre sono rimasti stabili i consumi del terziario.
Di rilevanza strategica per sostenere lo sviluppo è anche la modernizzazione delle amministrazioni pubbliche, che dispongono di un organico ridotto e invecchiato: oggi l’età media dei dipendenti è di quasi 50 anni rispetto ai 42 circa nel settore privato. Oltre che nella semplificazione delle procedure amministrative, la sfida è rivolta allo sviluppo del capitale umano e al pieno sfruttamento delle tecnologie digitali per l’offerta di servizi. In questa prospettiva sono incoraggianti le esperienze dell’ultimo biennio. Le istituzioni pubbliche hanno rinforzato le assunzioni e la formazione e continuato a erogare servizi nonostante la maggior parte del personale operasse da remoto, ed è cresciuto l’utilizzo delle piattaforme digitali pubbliche da parte di cittadini e imprese.

 

L’economia internazionale

 La ripresa dell’economia mondiale dallo shock associato alla pandemia da Covid-19 è iniziata già nella seconda metà del 2020 ed è proseguita fino all’inizio di quest’anno, seppure con intensità e tempistiche differenti tra i principali paesi e le aree geo-economiche.

 D’altra parte, dalla seconda metà del 2021 la risalita delle quotazioni delle materie prime – soprattutto energetiche – e la vivacità della ripresa hanno determinato una forte fiammata inflazionistica, in particolare nelle economie avanzate. Alla fine di febbraio 2022, l’aggressione della Russia all’Ucraina ha inoltre accentuato la volatilità sui mercati e innescato ulteriori rialzi dei prezzi delle materie prime energetiche e agricole. Questi fattori negativi, assieme alla normalizzazione della politica monetaria, hanno determinato un netto peggioramento delle prospettive di breve e medio termine dell’economia internazionale.

 Il commercio mondiale di beni e servizi in volume, cresciuto lo scorso anno di oltre il 10%, ha superato ampiamente i livelli del 2019, perdendo però dinamismo nei primi mesi del 2022. Le prospettive nel breve periodo sono divenute moderatamente negative.

 Nelle maggiori aree geo-economiche l’intonazione espansiva delle politiche a supporto di consumi e investimenti ha continuato ad accompagnarsi a un marcato recupero del clima di fiducia, soprattutto delle imprese, che nell’Ue è rimasta su valori storicamente elevati nonostante le tensioni geopolitiche e l’accelerazione dell’inflazione.

 Scontando i recenti fattori di rischio associati allo scenario mondiale, la Commissione europea ha previsto che la crescita del Pil nell’Uem, analogamente alle altre principali economie, deceleri quest’anno e il prossimo.
Il quadro congiunturale dell’economia italiana

 In Italia il Pil è cresciuto del 6,6% nel 2021 e a inizio 2022 è tornato sul livello del quarto trimestre 2019, nonostante la decelerazione dell’attività economica. La crescita acquisita per il 2022 è, al momento, del 2,6%. Le recenti previsioni dell’Istat stimano che il Pil continuerà a crescere nel 2022 e nel 2023, anche se a un ritmo nettamente inferiore a quello del 2021, grazie soprattutto alla spinta degli investimenti.

 La produzione industriale italiana aveva già superato nel 2021 i livelli di fine 2019. Nei primi quattro mesi del 2022 l’indice è cresciuto di un ulteriore 2,1% su base annua, nonostante una flessione importante a gennaio. Nello stesso periodo, al netto degli effetti di calendario, il fatturato è aumentato del 20,4% a prezzi correnti e del 5,5% in volume. Analogamente, trainato dagli incentivi fiscali, il settore delle costruzioni ha registrato una crescita continua e significativa da inizio 2021, che si è arrestata solo ad aprile 2022.

 Le attività del terziario sono state le più colpite dalla crisi. Nel complesso, il livello del fatturato si è attestato su valori superiori a quelli di fine 2019, ma con notevoli differenze tra settori. A mostrare le maggiori difficoltà sono stati quelli più penalizzati dalle misure di contenimento dovute all’emergenza sanitaria, come l’alloggio e ristorazione e i servizi alle imprese.

 Il 2021 è stato caratterizzato da un forte dinamismo degli scambi con l’estero dell’Italia, che hanno raggiunto livelli decisamente superiori a quelli di fine 2019. Nei primi quattro mesi del 2022 le vendite all’estero di prodotti italiani sono cresciute del 20,7% rispetto allo stesso periodo del 2021, ma l’incremento del valore dell’import è stato più che doppio, portando in negativo il saldo commerciale.

 Il deterioramento dei saldi commerciali è stato un fenomeno comune anche alle altre maggiori economie Ue e in larga parte dovuto all’aumento dei valori medi unitari delle importazioni, trainati dai costi dell’energia.

 Nei primi mesi del 2022 il tasso di incremento tendenziale dei prezzi al consumo ha continuato il sentiero di crescita iniziato nei mesi estivi del 2021. L’inflazione, misurata dall’indice armonizzato IPCA, ha raggiunto l’8,5% a giugno e il 3,4% per la componente di fondo (al netto dei prodotti alimentari ed energetici): si tratta di valori leggermente inferiori rispetto alla media Uem. L’inflazione acquisita per il 2022 (misurata dall’indice NIC per l’intera collettività) è pari al 6,4.

 Nel 2021 la dinamica salariale si è mantenuta molto moderata, con aumenti delle retribuzioni contrattuali per dipendente dello 0,7% e dello 0,4 per quelle lorde di fatto per unità di lavoro equivalenti a tempo pieno (Ula). Pertanto, la risalita dei prezzi al consumo ha portato a una diminuzione delle retribuzioni reali superiore a un punto percentuale, che erode quasi totalmente la crescita del 2020.

 Nonostante l’intensificarsi dell’attività negoziale, la dinamica retributiva contrattuale è rimasta molto contenuta anche nei primi mesi del 2022, ma è attesa accelerare sostanzialmente nella seconda parte dell’anno, alla luce dei rinnovi in corso e della previsione dell’indice dei prezzi al consumo armonizzato al netto dei prodotti energetici importati, utilizzato come base per i rinnovi contrattuali, pari al 4,7% nel 2022.

 La ripresa economica si è riflessa anche sulle condizioni del mercato del lavoro, progressivamente migliorate dopo i primi mesi del 2021. Pur con una crescita meno ampia rispetto a quella registrata nelle altre maggiori economie europee e un leggero calo ad aprile e maggio, gli occupati hanno recuperato quasi pienamente i livelli pre-crisi e il tasso di occupazione è ai massimi dall’inizio della serie storica a gennaio 2004.

 Il recupero ha riguardato tutte le categorie di occupati ma è stato guidato soprattutto dall’occupazione dipendente a tempo determinato (colpita più intensamente nella fase recessiva) e dai lavoratori più giovani, superando in entrambi i casi i tassi di occupazione precedenti la crisi.

 L’aumento dell’occupazione si è accompagnato a un calo della disoccupazione e dell’inattività, con il ritorno della quota degli attivi ai livelli pre-pandemia a partire dallo scorso marzo.

 Nel 2021 la crescita economica ha consentito una riduzione del debito della Pubblica amministrazione al 150,8% del Pil (-4,5 punti percentuali), più ampia di quanto previsto dai documenti programmatici. Tuttavia rimangono margini di incertezza sull’evoluzione futura del quadro di finanza pubblica, principalmente per le ripercussioni degli scenari bellici sull’economia e per il rialzo dei tassi di interesse sulle nuove emissioni di titoli.
I fattori di criticità per l’economia

 Il rialzo dei prezzi delle materie prime energetiche e agricole e le tensioni geopolitiche associate al conflitto russo-ucraino rappresentano fattori critici per l’economia italiana. Nel breve periodo sono possibili ulteriori rincari dei prezzi e, insieme, una riduzione delle forniture di questi input produttivi.

 Gas naturale e petrolio insieme soddisfano oltre i tre quarti del fabbisogno energetico italiano – il gas da solo circa il 40% – e sono quasi interamente importati. Analogamente, i processi produttivi del comparto agro-alimentare dipendono per oltre il 22% dagli approvvigionamenti esteri (in particolare per alcune materie prime come cereali e fertilizzanti), dei quali Russia e Ucraina sono tra i principali produttori.

 Come conseguenza delle caratteristiche relazionali dei settori energetico e agro-alimentare, la trasmissione degli shock su prezzi e forniture al resto del sistema produttivo è piuttosto estesa, anche se la velocità di propagazione è relativamente limitata. Questi shock colpiscono in maniera significativa comparti rilevanti per la produzione di beni di largo consumo (circa un terzo dell’economia in termini di valore aggiunto) e, dato il modello di specializzazione italiano, il commercio con l’estero (quasi la metà dell’export).
Le sfide: la transizione ecologica

 In Italia all’interno del PNRR sono stanziati circa 85 miliardi per la transizione ecologica e la mobilità sostenibile con la finalità, tra l’altro, di coordinare gli interventi utili a raggiungere l’obiettivo della
de-carbonizzazione entro il 2050.

 Tra il 2011 e il 2021 le emissioni complessive in Italia sono diminuite di circa il 19%. La riduzione è stata pari al 31% nella manifattura – riguardando la maggioranza dei settori di attività – e di appena il 10% nei consumi delle famiglie.

 Nello stesso periodo, nei comparti ad alto impatto climatico (tranne i trasporti), si è avuta una riduzione dell’intensità dell’impatto per unità di valore aggiunto. Questa contrazione è largamente dovuta al miglioramento delle tecnologie di produzione dei settori industriali mentre le attività terziarie a servizio della manifattura, il cui peso è cresciuto nel tempo, hanno fornito un contributo molto debole.

 Nel 2022 è in atto il terzo evento siccitoso grave in dieci anni, particolarmente acuto nel Nord-ovest. Gli effetti per l’economia, anche attraverso le ripercussioni sui prezzi dei beni stagionali ad elevata frequenza di acquisto e sulla disponibilità di acqua potabile, dipendono sia dai cambiamenti climatici sia dalle vulnerabilità strutturali del sistema di approvvigionamento, distribuzione e impiego dell’acqua.

 La possibilità di razionamento delle forniture idriche nelle aree più colpite avrebbe effetti significativi in primo luogo sul comparto agricolo e sull’uso civile, che assorbono rispettivamente il 50% e il 36% del totale dei consumi idrici.

 Nel quadro delle misure per la tutela del territorio e della risorsa idrica, il PNRR destina 4,38 miliardi alla gestione sostenibile delle risorse idriche lungo l’intero ciclo, con l’obiettivo di migliorare la qualità ambientale delle acque marine e interne. Si tratta di risorse fondamentali per iniziare un profondo rinnovamento infrastrutturale e gestionale.
Le sfide: la modernizzazione della PA

 Fra le sfide dei prossimi anni, la modernizzazione della PA e la sua riforma, sostenuta dai quasi 10 miliardi complessivamente stanziati dal PNRR, integra diversi obiettivi: digitalizzazione, incremento del capitale umano attraverso nuove assunzioni e la formazione, semplificazione dei processi amministrativi.

 Tra le economie europee per le quali sono disponibili dati comparativi, sia pure con le cautele di un simile confronto, i dipendenti pubblici in Italia sono i meno numerosi in rapporto alla popolazione (5,6 ogni 100 abitanti) e i più anziani. Il prolungato blocco delle assunzioni e le riforme pensionistiche hanno infatti contribuito a una riduzione dell’occupazione nella PA (-200mila negli ultimi venti anni) e all’innalzamento dell’età media (poco meno di 6,5 anni nello stesso periodo).

 Tra il 2011 e il 2020 si è avuta anche una marcata ricomposizione interna: il personale dell’Istruzione è aumentato del 14,5% mentre quello delle funzioni centrali (Ministeri, Agenzie, Enti pubblici non economici) si è ridotto di oltre il 20%, di poco meno quello delle funzioni locali.

 Il 42,5% dei dipendenti pubblici ha un titolo di studio universitario, più del doppio rispetto al settore privato. Al tempo stesso l’età media dei dipendenti pubblici, pari a 49,9 anni (fino a 54,1 nelle funzioni centrali), è di 7,5 maggiore di quella degli occupati nel settore privato.

 Nel 2019 le Amministrazioni pubbliche hanno investito 163 milioni di euro in formazione, ossia poco meno di 50 euro per dipendente. Si tratta di un importo in crescita rispetto al biennio precedente ma inferiore del 40% rispetto a 10 anni prima.

 La diffusione dell’attività formativa è molto differenziata tra le amministrazioni. Dai risultati preliminari del Censimento 2020, il numero di partecipanti (circa 2,3 milioni) si è leggermente ridotto a confronto col 2017 (in particolare nel comparto della Sanità, per le condizioni emergenziali), mentre sono aumentate le ore (+14,5%) e si è avuto un balzo delle attività formative a distanza (passate dal 16 al 73% del totale).

 Sul piano dei contenuti l’offerta formativa si è concentrata sulle tematiche giuridico-normative e tecniche. Solo il 6,6% dei partecipanti ha seguito corsi per migliorare le competenze informatiche, malgrado la loro mancanza sia segnalata come un ostacolo importante alla digitalizzazione.

 La digitalizzazione della PA italiana sconta la scarsità di investimenti in ICT, nonostante l’accelerazione dell’ultimo biennio. La diffusione delle tecnologie digitali è molto differenziata in termini dimensionali: oltre l’80% dei grandi enti (Amministrazioni centrali, Università, Regioni, ASL) nel 2020 utilizzava servizi di cloud computing contro meno del 40% degli enti più piccoli, nonostante una crescita di più di 10 punti percentuali rispetto al 2017. Il divario è ancora maggiore per le applicazioni più sofisticate e sul versante della sicurezza informatica, attualmente di grande rilievo.

 Tra gli ostacoli principali alla digitalizzazione, tutte le categorie di enti segnalano i deficit di competenze e formazione. Per gli enti più piccoli si aggiungono anche i vincoli finanziari (circa l’80% dei comuni sotto i 5mila abitanti), per quelli più grandi la rigidità al cambiamento (circa il 70% delle amministrazioni centrali).

 L’emergenza sanitaria ha portato a un miglioramento dell’offerta e della familiarità coi servizi pubblici online. Le persone dotate di identità digitale SPID sono passate da poco più di 5 milioni a inizio 2020 a oltre 30 a maggio 2022. Le imprese che utilizzano servizi di e-government sono cresciute del 13% in un biennio, fino a oltre l’80% a inizio 2021. Resta però un divario importante con la media Ue nell’uso dei servizi da parte dei cittadini, in particolare per quelli meno istruiti.

 L’emergenza sanitaria ha anche determinato l’introduzione massiccia del lavoro da remoto nelle istituzioni pubbliche, imprimendo una spinta alle dotazioni tecnologiche del personale, migliorate nell’85,4% dei casi.

 La valutazione sull’esperienza da parte delle istituzioni pubbliche è complessivamente positiva per produttività (con un saldo tra giudizi positivi e negativi favorevole per 37 punti percentuali), soddisfazione dei lavoratori (con un saldo di 61 punti) e servizi erogati (con un saldo di 23 punti), pure se con notevoli eterogeneità tra amministrazioni. Tra i cittadini, quasi il 90% si è detto soddisfatto o molto soddisfatto dei servizi ricevuti, anche se circa un quarto dei fruitori ha riscontrato un peggioramento.

 

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CAPITOLO 2
Due anni di pandemia: l’impatto su cittadini e imprese
A poco piu di due anni dall’inizio della crisi innescata dalla pandemia è possibile tracciare un bilancio delle conseguenze di questo shock improvviso e imprevisto sul tessuto sociale e produttivo del nostro Paese.
Con 16 milioni di contagi e oltre 160mila decessi associati all’infezione da SARS-CoV-2 tra marzo 2020 e aprile 2022, l’Italia è stata, insieme alla Spagna, fra i paesi Ue maggiormente colpiti dalla pandemia, soprattutto nella prima fase, con un netto miglioramento nel 2021 in concomitanza dell’avvio della campagna vaccinale.
La pandemia ha avuto un impatto rilevante su tutte le componenti della dinamica demografica: l’elevato eccesso di mortalità registrato nel 2020 è stato accompagnato dal quasi dimezzamento dei matrimoni e dalla forte contrazione dei movimenti migratori a cui si sono aggiunti, nel 2021, gli effetti recessivi dovuti al calo delle nascite.
L’emergenza sanitaria ha modificato le abitudini di vita della popolazione, con un impatto rilevante sui vari aspetti della quotidianità. Nel 2021 sono emersi chiari segnali di un ritorno alla quotidianità pre-Covid, anche se alcuni cambiamenti negli stili di vita sembrano persistere e potrebbero essere destinati a durare nel tempo.
Riflessi importanti si sono osservati anche sul mercato del lavoro, con l’esacerbarsi delle diseguaglianze a sfavore di segmenti della popolazione già in condizioni di vulnerabilità alla vigilia della pandemia. L’Italia si posiziona fra i paesi Ue dove è stata più marcata la riduzione degli occupati tra il 2019 e il 2020. Come conseguenza si è ulteriormente aggravato il divario rispetto alla media Ue27 per tutti i principali indicatori del mercato del lavoro.
L’impatto della crisi sul tessuto produttivo italiano è stato profondo e diffuso ma circoscritto nel tempo. A livello aggregato l’attività economica è tornata sui livelli di fine 2019, però non è stato così per tutti. D’altra parte questa crisi, più che in passato, ha spinto numerose imprese a sperimentare cambiamenti organizzativi e tecnologici importanti che hanno permesso di mitigare gli effetti della crisi e ne rappresentano un’eredità favorevole.

L’andamento della pandemia

 In Italia, dall’inizio dell’epidemia (marzo 2020) fino a fine aprile 2022 sono stati segnalati oltre
16 milioni di casi confermati di infezione da SARS-CoV-2 e circa 160mila decessi associati alla diagnosi di infezione. Il 48% dei decessi è avvenuto nel 2020, il 37% nel 2021 e il 15% tra gennaio e aprile 2022.

 Nel confronto con il quinquennio pre-pandemico 2015-2019, nel 2021 si continua a registrare un eccesso di mortalità totale (63mila unità in più), ma in calo rispetto al 2020 (-37mila), anche nei segmenti più colpiti dalla prima fase della pandemia.

 Nell’Ue27 il totale dei decessi in eccesso ha superato i 500mila nel 2020 e i 650mila nel 2021, con un contributo dell’Italia che è passato dal 19% circa del primo anno di pandemia a meno del 10% nel 2021 e nei primi mesi del 2022.

 Nel nostro Paese il tasso standardizzato di mortalità (885 decessi per 100mila abitanti) è in calo nel 2021 rispetto al 2020 (941) e si conferma ben sotto la media europea (1.056) che, al contrario, registra ancora nel 2021 una crescita sull’anno precedente. Nei primi due mesi del 2022 il trend decrescente del tasso standardizzato italiano prosegue e inizia anche a livello europeo.

 Italia e Spagna sono tra i paesi Ue27 più colpiti dalla prima ondata della pandemia, con un incremento del tasso standardizzato di mortalità che tocca il punto di massimo rispettivamente a fine marzo (+76,8%) e all’inizio del mese di aprile 2020 (+140,8%). Nei paesi dell’Est Europa l’epidemia ha prodotto i suoi effetti più devastanti solo nei mesi successivi, con incrementi percentuali del tasso standardizzato che nella seconda metà di ottobre 2021 ha rag¬giunto il +122,0% in Romania, seguita da Bulgaria e Slovacchia (rispettivamente +90,8% a inizio novembre e +78,9% a inizio dicembre).

 L’elevato eccesso di mortalità registrato nei due anni di pandemia ha comportato una diminuzione della speranza di vita in quasi tutti i paesi europei, seppure di entità e durata differenziate. In Italia e Spagna il calo si è concentrato nel 2020 con un accenno di ripresa nel 2021. In altri paesi, in particolare dell’Est europeo, la riduzione è stata accentuata soprattutto nel 2021. Alcuni, come Finlandia e Danimarca, non hanno registrato variazioni di rilevo nel biennio pandemico.

 

 Per l’insieme dell’Ue27 l’eccesso di mortalità è stato leggermente più elevato tra gli uomini, sia nel 2020 (+6,3% contro +5,0% per le donne) sia nel 2021 (+7,0% contro +6,5%). Lo svantaggio degli uomini è stato osservato anche in Italia ma solo nel 2020, annullandosi nel 2021.

 In Italia, nel 2020, l’eccesso di mortalità si è manifestato a partire dalla classe di età 45-59 anni (+2,5%), superando l’11% a partire dai 70 anni. Nel 2021, l’eccesso di mortalità è risultato simile a quello del 2020 nella classe 45-59 anni mentre è diminuito negli altri segmenti di età, soprattutto a partire dagli 80 anni, come accaduto anche in altri paesi che hanno avviato tempestivamente la campagna vaccinale tra gli anziani.

 Durante le fasi più intense di diffusione del virus i tassi di mortalità sono aumentati per tutti i livelli di istruzione in Italia. Tuttavia si è rilevato un incremento, seppur contenuto, delle disuguaglianze di mortalità a svantaggio delle persone con basso titolo di studio.

 La mortalità dovuta al Covid-19 ha colpito più duramente gli stranieri nati in aree extra-Ue a forte pressione migratoria (FPM): nei primi due mesi della pandemia i tassi di mortalità risultano più elevati tra gli stranieri rispetto agli italiani, del 20% negli uomini e del 60% nelle donne. A maggio e giugno 2020 la mortalità da Covid-19 si riduce notevolmente, ma il divario tra italiani e stranieri da paesi FPM permane, con una mortalità del 50% più alta tra le donne e del 40% tra gli uomini.

 Ad aprile 2022, con l’80,1% di vaccinati con ciclo primario, l’Italia si colloca al terzo posto della graduatoria europea, dopo Portogallo e Malta.

 In Italia quasi il 90% degli adulti riconosce l’utilità dei vaccini nel contenere la diffusione della pandemia e li ritiene sicuri, tre su quattro manifestano preoccupazione per la scelta di alcuni di non vaccinarsi, e durante la quarta ondata pandemica più dell’80% si è detto d’accordo con la necessità di mostrare il green pass o l’esito negativo al tampone Covid-19 per viaggiare in aereo/treno, andare al ristorante o in albergo, assistere a spettacoli.

 Sulla base dei dati raccolti dall’indagine Eurobarometro, a febbraio 2022 il nostro Paese è al primo posto nel contesto internazionale sia per il giudizio favorevole a una eventuale obbligatorietà delle vaccinazioni (73% contro 56% della media europea) sia per il consenso all’adozione di misure restrittive per l’accesso a luoghi/eventi verso quanti rifiutano di vaccinarsi (82% contro 71%).
Le conseguenze demografiche

 La pandemia ha avuto un impatto rilevante su tutte le componenti della dinamica demografica. La perdita di popolazione ascrivibile alla dinamica demografica negativa è stata pari a 658mila residenti tra il 1° gennaio 2020 e il 31 dicembre 2021, mentre il deficit è risultato doppio rispetto a quello riscontrato nel biennio 2018-2019 (-296mila).

 Nel 2020 si è registrata una drastica contrazione dei matrimoni per effetto delle misure di contenimento della diffusione dell’epidemia. In base ai dati provvisori, nel 2021 il numero di matrimoni è raddoppiato e la crescita prosegue nel trimestre gennaio-marzo 2022, ma non è ancora sufficiente a recuperare i livelli del 2019.

 In Germania la diminuzione dei matrimoni del 2020 è stata molto più contenuta rispetto agli altri paesi ma si è accentuata nel 2021. In Francia, invece, dopo un netto calo delle celebrazioni nel 2020, nel 2021 il numero di matrimoni è quasi tornato ai livelli pre-pandemici.

 In Italia anche le unioni civili (tra persone dello stesso sesso), diminuite nel 2020 del 33% rispetto al 2019, hanno recuperato l’anno seguente, anche se non completamente. Di contro, la crescita osservata nei primi tre mesi del 2022 è tale da superare sia i valori corrispondenti del 2021 (+20,6%) sia quelli relativi ai primi tre mesi del 2019 (+7,6%).

 Il calo della nuzialità non ancora recuperato e la diminuzione di coppie giovani al primo matrimonio hanno ristretto il numero di potenziali genitori, con evidenti ripercussioni sulle nascite a partire dagli ultimi due mesi del 2020 (relativi ai concepimenti di marzo-aprile 2020).

 Il crollo delle nascite si è protratto nei primi sette mesi del 2021 per poi rallentare verso la fine dell’anno. Secondo i dati provvisori per il primo trimestre 2022, a marzo il calo raggiunge il suo massimo (-11,9% rispetto allo stesso mese del 2021).

 Spagna e Italia non hanno ancora recuperato il calo della natalità del 2020. In Francia, dopo la riduzione osservata tra il 2015 e il 2020, nel 2021 le nascite sono state 3mila in più. In Germania, a un calo dei matrimoni nel 2021 è corrisposto un balzo nel numero dei nati, il più alto dal 1997.

 Nel 2020 emigrazioni, immigrazioni, mobilità interna si sono ridotte fortemente. La dinamica migratoria complessiva ha mostrato lievi segnali di recupero nel 2021, al netto degli aggiustamenti anagrafici. I dati anticipatori di gennaio-marzo 2022 confermano la tendenza all’aumento delle iscrizioni dall’estero (+26,1%) e la contrazione delle cancellazioni per l’estero
(-19%), con un saldo migratorio pari a +50mila unità, quasi il doppio rispetto al primo trimestre 2021.
L’impatto sulla vita quotidiana

 L’emergenza sanitaria ha modificato le abitudini di vita della popolazione. Già nel 2021 sono emersi segnali di un ritorno alla quotidianità pre-Covid, sebbene non tutto sia tornato come prima né sia possibile prevedere se e quando ciò accadrà.

 Ad aprile 2020, in un giorno medio del lockdown della prima ondata, poco più di una persona su quattro è uscita per le motivazioni consentite dal decreto “iorestoacasa”. Si è dimezzata la quota di persone che in un giorno medio affermano di aver lavorato e il 44% di questi lo ha fatto da casa. Per il 26% degli occupati il tempo dedicato al lavoro è diminuito, mentre per il 13,7% è cresciuto. Un terzo dei cittadini si è potuto svegliare più tardi e un quinto ha potuto dormire di più. Più di un cittadino su quattro ha dedicato più tempo ai pasti.

 La preparazione dei pasti ha coinvolto più di sei persone su 10, diventando spesso un momento conviviale; una persona su tre vi ha dedicato più tempo di prima. Il 40% ha destinato più tempo del solito alle pulizie della casa. Per la chiusura delle scuole, il 67,2% dei genitori con figli fino a 14 anni ha dedicato più tempo alla cura dei bambini che in passato, senza differenze di genere.

 In questo stesso periodo, il distanziamento fisico non si è tradotto in distanziamento sociale e i rapporti con parenti e amici sono stati coltivati a distanza. Le attività di tempo libero sono state profondamente influenzate dalle restrizioni che hanno indotto a privilegiare quelle poco condivise e svolte prevalentemente all’interno delle mura domestiche.

 Gli stravolgimenti della vita quotidiana conseguenti al lockdown di marzo e aprile 2020 si sono attenuati nei mesi successivi. Gradualmente tende a normalizzarsi la composizione delle 24 ore, con la maggioranza dei cittadini (quote variabili tra il 57 e l’85%) che impegna nelle varie attività la stessa quantità di tempo del periodo pre-pandemico.

 È in aumento la quota di cittadini che in un giorno medio effettuano almeno uno spostamento sul territorio: dal 28% del periodo di vigenza del decreto “iorestoacasa”, al 58,3% della seconda ondata fino al 72,9% della quarta. Tuttavia si è ancora lontani dalla percentuale relativa al periodo pre-pandemico (90% circa). Inoltre, ancora una persona su tre (35,9%) si trattiene meno fuori casa mentre il 65% esce più di rado (87,2% nel 2020).

 Una progressiva riduzione degli effetti dell’emergenza sanitaria si segnala anche per le attività fisiologiche, ma sono altrettanto evidenti e tuttora in corso i cambiamenti qualitativi. L’isolamento forzato e i cambiamenti nei ritmi di vita hanno avuto effetti sulla qualità del sonno, con una persona su cinque che afferma di svegliarsi più spesso durante la notte.

 Si riduce drasticamente la quota di quanti dedicano più tempo di prima ai pasti (7,8% a fronte del 27% della prima ondata), così come è in netto calo la percentuale di chi ha cambiato le proprie abitudini alimentari, in particolare di quanti mangiano di più o consumano più cibi meno salutari. Rispetto ad aprile 2020 si dimezza anche la quota di quanti dedicano più tempo alla pulizia della casa, alla preparazione dei pasti e alla cura dei bambini (0-14 anni).

 Al lavoro e allo studio la maggioranza della popolazione adulta dedica lo stesso tempo che in passato. Per il lavoro, scende all’8,6% dal 26% di aprile 2020 la quota di chi vi dedica meno tempo; contestualmente si riduce la quota di lavoratori a distanza.

 L’allentamento delle restrizioni ha fatto recuperare gli incontri in presenza: durante la quarta ondata più di un cittadino su quattro ha incontrato familiari non conviventi il giorno precedente l’intervista, altrettanti si sono visti con amici.

 L’emergenza sanitaria sembra aver prodotto cambia¬menti profondi e duraturi nelle relazioni sociali. Ancora durante la quarta ondata, solo per circa un terzo della popolazione adulta nulla è cambiato nei rapporti con i familiari non conviventi o con gli amici, mentre oltre la metà dichiara di aver ridotto la frequenza degli incontri (rispettivamente 54,9% e 61,8%).

 L’abitudine alla lettura di libri ha avuto un andamento positivo nei due anni di pandemia, anche se il profilo prevalente continua a essere quello di “lettore debole”: il 44,6% dei lettori ha letto fino a tre libri nel corso del 2021 mentre solo il 15,2% ne ha letti almeno 12 (“lettori forti”).

 La pratica fisico-sportiva ha retto nel periodo pandemico: il 22,7% della popolazione adulta l’ha svolta prevalentemente in casa in un giorno medio di aprile 2020. Tra i più giovani (6-14 anni) è però diminuita la diffusione dello sport continuativo ed è cresciuta la sedentarietà (dal 18,3% del 2019 al 24,4% del 2021).

 La fruizione virtuale ha consentito ad alcune attività di tempo libero di reggere all’impatto della pandemia: è proseguito accentuandosi il trend in crescita dell’utilizzo di dispositivi digitali e audiolibri per la lettura. Tra gli utenti regolari di Internet si è inoltre registrato un aumento nell’uso della rete per scaricare e/o leggere libri, quotidiani, riviste, giocare in rete/scaricare giochi, guardare la tv in streaming o video on demand.

 La partecipazione ad eventi e spettacoli fuori casa, insieme a tutte le forme di partecipazione culturale e passatempi che non hanno potuto beneficiare di una qualche forma di virtualizzazione, ha registrato tra il 2019 e il 2021 un vero e proprio crollo. La quota di chi ha svolto almeno due attività nell’anno si è ridotta di circa quattro volte (dal 35,1% del 2019 all’8,3% del 2021) mentre si è dimezzata la quota di chi ne ha svolta una (dal 14,3 al 7,2%).
L’impatto sul mercato del lavoro: l’Italia nel contesto europeo

 Sul mercato del lavoro la pandemia ha avuto un impatto rilevante sia quantitativo (-724mila occupati rispetto all’anno precedente) sia qualitativo, per l’esacerbarsi delle diseguaglianze a sfavore di segmenti di popolazione vulnerabili già alla vigilia dell’emergenza sanitaria.

 Nel 2020 la crisi ha colpito soprattutto le componenti meno tutelate del mercato del lavoro: il 55,5% della caduta occupazionale ha riguardato i lavoratori dipendenti a termine (-402mila rispetto al 2019), e gli indipendenti (-233mila) mentre tra gli occupati a tempo indeterminato il calo non ha superato le 90mila unità.

 Nell’Ue27 gli occupati fra i 15 e i 64 anni sono scesi di oltre 3,5 milioni nel 2020 (-1,8% rispetto al 2019). Tra i paesi europei l’Italia ha subito la caduta dell’occupazione maggiore dopo la Grecia
(-5,1%) e la Bulgaria (-3,6%), in linea con Spagna e Irlanda (-3,1%) mentre in Francia la diminuzione su base annua è stata dello 0,5%.

 Anche la ripresa osservata nel 2021 in media Ue27 (+1,5%) ha visto il nostro Paese relativamente più penalizzato rispetto alle altre grandi economie dell’area. La fase di incertezza di inizio 2021 ha infatti frenato la risalita dell’occupazione (poi riavviatasi nei mesi successivi), determinando in media d’anno una crescita degli occupati di 15-64 anni intorno allo 0,6% rispetto al 2,8% della Spagna, all’1,6% della Francia e all’1,3% della Germania.

 Tali dinamiche hanno determinato un ulteriore ampliamento del divario dell’Italia rispetto alla media Ue27 per i principali indicatori del mercato del lavoro. Il tasso di occupazione dei 15-64enni, già inferiore di 9,1 punti percentuali nel 2019 nonostante i progressi registrati dal 2014, si è attestato al 58,2%, circa 10,2 punti percentuali in meno della media europea.

 Il costo pagato dalle donne è stato più elevato in Italia che nel resto d’Europa. Le occupate sono diminuite di circa 376mila unità nel 2020 (-3,8% rispetto al 2019), a fronte di un impatto di genere mediamente più omogeneo nelle principali economie dell’Ue27. Nel 2021, nonostante una ripresa più favorevole per le donne, il tasso di occupazione femminile non ha ancora recuperato, in media d’anno, i livelli del 2019, rimanendo sotto la soglia del 50% (49,4%).

 L’altro segmento particolarmente colpito dalla pandemia è stato quello dei giovani: nella media Ue27 si è registrato un calo di occupati sotto i 25 anni quasi tre volte superiore rispetto ai 25-54enni (-6,1% contro -2,3%), con Italia e Spagna che si distinguono per le perdite più marcate (-9,6% e -14,9%).

 Nel 2021, la ripresa dell’occupazione giovanile ha riguardato anche l’Italia, pur con un’intensità inferiore (+5,5%) rispetto a Francia (+12,5%) e Spagna (+12,6%). Il tasso di occupazione dei
15-24enni – già il più basso fra le principali economie dell’Ue27 – è cresciuto in Italia di solo 0,9 punti percentuali (+3,3 punti in Francia), rimanendo ancora circa un punto sotto il valore del 2019.

 Anche nel biennio 2020-21 si conferma il ruolo protettivo svolto da un più alto livello di istruzione. In Italia, nel 2020, il tasso di occupazione dei laureati (81,7%) si è ridotto meno della metà (-0,7 punti) rispetto a chi ha un diploma secondario superiore (-1,8 p.p.) o la licenza media (-1,5 p.p.). Ancora più netti appaiono i vantaggi nel 2021: in media d’anno la quota di occupati laureati 15-64enni è cresciuta di 1,4 punti percentuali sul 2020 (da 81,7% a 83,1%), a fronte di un incremento di un solo decimo di punto (da 73,0 a 73,1%) per i diplomati.

 I benefici occupazionali di un titolo di studio più elevato sono particolarmente evidenti tra le donne, per le quali nel 2021 essere in possesso di una laurea si associa a un tasso di occupazione al 76,4%, 22 punti percentuali più alto di quello delle diplomate. Fra gli uomini il vantaggio corrispondente è di circa 10 punti (83,1% contro 73,1%).

 I vantaggi occupazionali dell’accumulazione del capitale umano trovano conferma anche per i segmenti di popolazione più giovane. Nel 2021, in Italia, il tasso di occupazione dei 30-34enni con titolo di studio terziario è all’81,1%, rispetto al 68,4% dei diplomati e al 53,5% di chi non è andato oltre la licenza media. Anche in questo caso il premio più elevato riguarda le giovani laureate che risultano occupate nel 78,3% dei casi, contro il 53,7% delle coetanee con diploma secondario superiore.

 Nell’Ue27 l’Italia mantiene un divario importante anche con riferimento alla possibilità di lavorare da remoto. La quota di occupati di 15-64 anni che affermano di aver svolto il proprio lavoro occasionalmente o abitualmente da casa è cresciuta dal 4,7% del 2019 al 13,6% del 2020. Ciononostante l’Italia resta sotto la media europea (20,6%).

 Nel 2020 in Italia la quota di occupati che hanno lavorato da casa solo occasionalmente è rimasta molto bassa (da 1,1% a 1,4%). Questa componente è invece molto rilevante nella media dell’Ue27 (8,6%). Nel 2021, tuttavia, nel nostro Paese la ripresa delle attività economiche si è associata a un ridimensionamento del lavoro agile abituale e all’incremento di quello di natura meno frequente.

 Lavorare da casa ha comunque comportato alcune difficoltà, riportate da più di un lavoratore su due (54,2%). In particolare, più di un lavoratore su quattro ha lamentato problemi di connessione a Internet e difficoltà di concentrazione, il 23,2% carenze di dotazione tecnologica, il 21,3% scarsità di spazi adeguati in casa e il 23,4% problemi di sovrapposizione tra lavoro e attività personali/familiari.

 Lavorare due o tre giorni a settimana da casa rappresenta il modello ibrido ideale per gli interessati a questa forma di flessibilità lavorativa, sia per chi ne ha già avuto esperienza sia per chi desidererebbe farla (69,5%); il 16,6% preferirebbe un utilizzo più sporadico mentre il 13,8% manifesta interesse per un modello più spinto (tutti i giorni o quasi).
Il sistema delle imprese

 La crisi associata alla pandemia è stata molto profonda ma concentrata in alcuni settori di attività e circoscritta nel tempo. A maggio e novembre 2020 oltre il 30% delle imprese percepiva il rischio di chiusura nel breve termine ma già a novembre 2021 questa quota si è ridotta al 3,4%.

 A fine 2021 paventa il rischio chiusura il 12% delle imprese dei servizi ricreativi (es. cinema, teatri, discoteche). In questo comparto e nelle attività di alloggio e ristorazione la quota sale al 30%, se si includono le imprese che percepiscono solo parzialmente tale rischio.

 L’impatto della crisi ha penalizzato di più le imprese di dimensione minore: oltre il 30% di quelle con 3-9 addetti ha ridotto la propria capacità produttiva rispetto al 2019, solo il 6,5% l’ha aumentata (e appena il 2% nei servizi ricreativi). Tra le imprese più grandi (50 addetti e più), meno del 15% ha perso capacità produttiva mentre oltre il 22% l’ha accresciuta.

 Gli interventi pubblici di sostegno hanno permesso a oltre il 40% delle imprese di ricorrere a finanziamenti garantiti dallo Stato nella prima fase della crisi, possibilità che alla fine dello scorso anno circa il 20% delle imprese ritiene molto rilevante per il proseguimento dell’attività.

 Un effetto positivo dell’emergenza sanitaria – in Italia e negli altri paesi avanzati – è stata l’accelerazione nell’utilizzo delle tecnologie digitali. Le tre aree di digitalizzazione più influenzate dalla pandemia sono state quelle del lavoro da remoto (o agile), del commercio elettronico e della digitalizzazione dei processi aziendali, inclusa l’automazione.

 Nel gennaio 2020, in media, lavorava da remoto circa il 3,7% del personale delle imprese con almeno tre addetti; tale incidenza è salita al 19,8% nel bimestre marzo-aprile 2020 per giungere, a fine 2021, a un livello di diffusione medio più che doppio. In particolare sono state le grandi imprese (almeno 250 addetti) del Nord-ovest a utilizzare più intensivamente questa modalità nel settore privato.

 Tra le imprese che nel periodo giugno-ottobre 2021 hanno mantenuto una quota di personale in lavoro da remoto, i giudizi negativi superano quelli positivi per l’efficienza e la collaborazione interna, mentre i saldi dei giudizi sono moderatamente positivi per la produttività e più favorevoli sui costi operativi e sul benessere del personale.

 Inoltre, l’esperienza del lavoro da remoto sembra aver rappresentato uno stimolo importante per altri cambiamenti, quali gli investimenti in tecnologie e formazione. Anche in questo caso, la capacità di coglierne le opportunità è stata più diffusa tra le imprese più grandi.

 Durante la crisi è accelerata l’adozione delle tecnologie per la gestione dei flussi informativi d’azienda e l’automazione dei processi (“tecnologie 4.0”). Ne deriva una possibile convergenza tra settori nei quali le imprese avevano già investito significativamente in tecnologie 4.0 nel periodo pre-Covid e settori nei quali sono stati realizzati investimenti digitali rilevanti a seguito della crisi, con una diffusione sostanziale anche tra le imprese di minore dimensione.

 Gli indicatori qualitativi segnalano un ampliamento significativo del segmento di imprese che attribuiscono valore strategico agli investimenti immateriali in capitale umano e ricerca e sviluppo, all’internazionalizzazione, alla sostenibilità ambientale. Le intenzioni di investimento in questi ambiti per il primo semestre 2022 sono superiori non solo a quanto registrato nelle due precedenti rilevazioni, ma anche al livello del triennio 2016-2018.

 La capacità delle imprese di adattarsi ai cambiamenti intercorsi è in larga misura spiegata da elementi di dinamismo pre-esistenti l’emergenza sanitaria, coadiuvati da aspetti di struttura quali la dotazione di capitale umano, la dimensione d’impresa e il settore d’attività.

 Distinguendo le imprese in base alla capacità di attuare strategie di reazione alla crisi (imprese “proattive”), a parità di altre caratteristiche le unità appartenenti ai gruppi mediamente o molto proattivi presentano una probabilità relativamente più elevata di arrivare all’uscita della crisi solide e dotate di una capacità produttiva superiore al 2019.

 Le scelte strategiche adottate dalle imprese nel periodo di crescita 2016-2018 hanno influito positivamente sulle scelte comportamentali attuate nel corso della crisi e nella fase di uscita.

 Le donne, i giovani sotto i 35 anni e i residenti stranieri sono ampiamente sotto-rappresentati nella conduzione delle imprese con almeno 3 addetti, a confronto con il loro ruolo nel funzionamento delle stesse imprese. Nel 2019 le donne dirigevano meno del 23% delle imprese pur essendo il 37,9% degli addetti; gli stranieri il 5,9% col 12,9%, e i giovani il 7,8%, con una quota di ben il 27,8% tra gli addetti.

 Donne, giovani e stranieri sono relativamente più presenti nella conduzione delle imprese più piccole e nei settori dei servizi maggiormente colpiti dalla crisi: tra le imprese con 3-9 addetti quelle attive nei servizi di alloggio e ristorazione, amministrativi, ricreativi e alle famiglie sono il 26,5% ma il 38,6% tra quelle a conduzione femminile e il 45,7% se dirette da giovani. I comportamenti (proattività, scelte strategiche precedenti) e aspetti strutturali quali il livello di istruzione sono stati rilevanti nel determinare la tenuta e lo sviluppo delle micro-imprese in questi gruppi, più che per le altre.

 

 

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CAPITOLO 3
Famiglie, stranieri e nuovi cittadini
Negli ultimi dieci anni il tessuto demografico e sociale dell’Italia ha subito profonde modifiche. L’ampliarsi del deficit tra nascite e decessi e la contrazione del saldo migratorio hanno innescato una fase demografica recessiva accentuata dallo squilibrio di una struttura per età sempre più invecchiata.
Sono aumentate le famiglie ma si è ridotto il numero dei componenti. Al Centro-nord le coppie con figli non rappresentano più il modello familiare prevalente, superate dalle persone che vivono sole. Al contempo sono aumentate le coppie non coniugate, le famiglie ricostituite, i single non vedovi e i mono-genitori non vedovi. È proseguito inoltre lo spostamento in avanti di tutte le tappe cruciali della vita, a cominciare dall’uscita dei giovani dalla famiglia di origine.
Sul fronte dell’immigrazione l’ultimo decennio è stato caratterizzato dal radicamento sul territorio dei migranti arrivati nei decenni passati e da un rilevante mutamento dei nuovi flussi in arrivo. Gli ingressi per motivi di lavoro si sono ridotti molto, a fronte di una sostanziale stabilità di quelli per ricongiungimento familiare e di una forte quanto improvvisa crescita dei migranti in cerca di protezione internazionale, di cui i profughi ucraini sono l’ultimo tragico esempio.
Sono cresciuti numericamente i giovani di origine straniera nati in Italia da genitori stranieri, quelli arrivati prima del compimento dei 18 anni, i ragazzi figli di coppie miste. In deciso aumento anche le persone che hanno ottenuto la cittadinanza italiana per acquisizione.
Molti ragazzi, italiani e stranieri, immaginano il loro futuro in un paese diverso dall’Italia. Si tratta di un aspetto da non sottovalutare perché rischia di far disperdere un capitale umano prezioso, soprattutto per un Paese che invecchia sempre più e sempre più velocemente.

Le trasformazioni demografiche e familiari

 In Italia prosegue l’invecchiamento della popolazione per una persistente bassa fecondità e una longevità sempre più marcata. Al 1° gennaio 2022 l’indice di vecchiaia (rapporto percentuale tra anziani di 65 anni e più e giovani di età inferiore a 15 anni) è pari a 187,9%, aumentato in vent’anni di oltre 56 punti. Anche nei prossimi decenni si prevede che l’invecchiamento continuerà: l’indice raggiungerà quota 293 al 1° gennaio 2042.

 Gli anziani di 65 anni e più sono 14 milioni 46mila a inizio 2022, 3 milioni in più rispetto a venti anni fa e pari al 23,8% della popolazione totale. Nel 2042 saranno quasi 19 milioni, il 34% della popolazione. I grandi anziani (80 anni e più) superano i 4,5 milioni mentre la popolazione con almeno cento anni raggiunge le 20mila unità, valore quadruplicato negli ultimi vent’anni. Nel 2042 gli ultraottantenni saranno quasi 2 milioni in più e gli ultracentenari triplicheranno, raggiungendo le 58mila e 400 unità.

 La popolazione continua a diminuire dal 2014 per via del saldo naturale negativo non compensato dall’apporto positivo delle migrazioni. Secondo i primi dati provvisori, al 1°gennaio 2022 la popolazione è scesa a 58 milioni 983mila unità, cioè 1 milione 363mila in meno nell’arco di 8 anni.

 Il rinvio della maternità si accentua. Rispetto al 1995 l’età media al parto aumenta di oltre due anni, arrivando a 32,2 nel 2020. Nello stesso periodo cresce anche, e in misura ancora più marcata (oltre tre anni), l’età media alla nascita del primo figlio, che raggiunge 31,4 anni.

 Nel 2021 il numero medio di figli per donna è di 1,25, lo stesso del 2001, quando era in atto un recupero della fecondità (soprattutto ad opera delle donne straniere nel Centro-nord) dopo il minimo storico di 1,19 figli per donna toccato nel 1995. La fecondità delle straniere è ancora superiore a quella delle italiane ma in diminuzione: nel 2020 è pari a 1,89 figli per donna (da 2,22 nel 2011) contro 1,17 per le italiane (da 1,32).

 La diminuzione complessiva delle nascite è attribuibile prevalentemente al calo dei nati da coppie di genitori entrambi italiani, pari a 313mila e 700 nel 2021 (oltre 147mila in meno rispetto al 2011). Anche i nati da genitori stranieri (80mila nel 2012) diminuiscono fino a 56mila e 700, risultando più penalizzati dalla diffusione della pandemia: tra il 2020 e il 2021 il calo è cinque volte superiore a quello dei nati italiani (-5,1% vs -0,9%).

 Anche i primogeniti risultano in forte diminuzione: -28,1% nel 2020 rispetto al 2011 (-23,8% per i secondogeniti o di ordine successivo) ma si arriva a -40% nel caso di genitori coniugati, per effetto del contemporaneo calo della nuzialità.

 All’opposto aumentano le nascite fuori dal matrimonio, soprattutto negli anni della pandemia: 159.453 nel 2021, ossia +25mila rispetto al 2011 e +106mila nel confronto con il 2001. In termini relativi, negli ultimi due anni la quota dei nati fuori dal matrimonio sul totale delle nascite sale a 35,8% nel 2020 e a 39,9% nel 2021 (da 24,6% nel 2011 e 10,0% nel 2001), prevalentemente per il dimezzamento dei matrimoni registrato nel 2020 e non ancora recuperato.

 L’incidenza dei nati fuori dal matrimonio è più alta nel Centro (45,8% da 29,0% del 2011), anche se negli anni più recenti il ritmo di incremento più rapido si è osservato nel Mezzogiorno (da 17,2% a 34,6%).

 Continua la tendenza al rinvio e alla diminuzione dei matrimoni, soprattutto del primo ordine. L’età media al primo matrimonio, pari a 32,6 anni per gli uomini e a 30,1 per le donne nel 2011, sale a 33,9 e 31,7 anni nel 2019. Il rinvio si è ulteriormente accentuato nel 2020 tanto da portare la media a 34,1 per gli uomini e 32,0 per le donne. Nel 2021 si sono celebrati 141.141 primi matrimoni, il 78,8% del totale (-3,4% rispetto al 2019 e quasi il 20% in meno del 2011).

 Prosegue il trend crescente dell’instabilità coniugale: secondo i dati provvisori 2021 le separazioni sono cresciute in un anno del 22,4%, i divorzi del 24,5% e si è tornati a livelli simili a quelli del 2019. Rispetto al 2011 le variazioni sono rispettivamente pari a +10,1% e +54,3%.
Come cambiano le strutture familiari

 Le famiglie sono sempre di più, 25,6 milioni nel 2020-2021, ma sempre più piccole: il numero medio di componenti della famiglia scende a 2,3 da 2,6 del 2000-2001. Sull’aumento del numero delle famiglie pesa il forte incremento di quelle costituite da una sola persona, passate dal 24,0% del totale di inizio millennio al 33,2%. In aumento anche le famiglie composte da un solo genitore che vive con i figli senza altri membri aggiunti (quasi una famiglia su dieci).

 Diminuiscono invece le famiglie costituite da coppie con figli e senza altre persone (quasi 8 milioni, 31,2% del totale nel 2020-2021, -11,1 punti percentuali in vent’anni). Nel Nord-est le persone sole e le coppie con figli si equivalgono (ciascuna il 30% del totale), nel Centro e nel Nord-ovest prevalgono le famiglie unipersonali (36% contro 28% circa delle coppie con figli) mentre nel Mezzogiorno risultano ancora preponderanti le coppie con figli (circa 36% contro circa 30% delle persone sole).

 Coppie non coniugate, famiglie ricostituite, single non vedovi e monogenitori non vedovi sono le tipologie familiari in crescita: nel 2020-2021 ammontano in totale a 9,4 milioni, ossia il 36,7% delle famiglie (da quasi il 20% di inizio millennio). Le persone sole non vedove sono 5 milioni e 275mila, quasi raddoppiate rispetto al 2001, uomini nel 56% dei casi (+3 punti dal 2000-2001). Per circa due terzi si tratta di celibi o nubili. Sul territorio le persone sole non vedove sono relativamente di più al Nord-ovest (30%) rispetto al Centro (23%), al Nord-est e al Sud (18%) e, infine, alle Isole (9%).

 Per effetto dello scioglimento delle unioni, le famiglie costituite da monogenitori non vedovi sono oggi poco più di 1,8 milioni, un milione in più rispetto a vent’anni fa. Oltre quattro su dieci risiedono nel Nord, quasi uno su tre nel Mezzogiorno e meno di uno su quattro nel Centro. La maggioranza di questi nuclei è composta da madri sole (80,9%) anche se in calo in vent’anni, con conseguente aumento dei padri soli (dal 15,7% al 19,1% dei monogenitori). In tre casi su quattro si tratta di persone separate o divorziate, con un’incidenza un po’ più alta tra i padri soli (quasi otto su dieci hanno alle spalle un matrimonio).

 I monogenitori non vedovi con figli minori sono più della metà (quasi un milione) ma il loro peso relativo diminuisce nel tempo (erano sei su dieci venti anni prima). Nell’84% dei casi sono madri, nonostante la lieve crescita dei padri. In questi nuclei la presenza di figli minori è più alta nel Mezzogiorno (58,2%) e più bassa al Centro (47,9%).

 Nel biennio 2020-2021 le coppie in Italia sono 13,9 milioni, quasi mezzo milione in meno rispetto a venti anni prima. Anche se la tipologia dominante è ancora la coppia coniugata in prime nozze (circa 11,6 milioni, pari all’83,3% dal 94,3% del 2001) risultano in forte crescita le coppie non coniugate, o unioni libere (1 milione e 453mila, 10,5% da 3,1%) e le coppie ricostituite coniugate, in cui almeno uno dei due partner proviene da un precedente matrimonio (863mila, 6,2% da 2,6%).

 Sul territorio le coppie coniugate in prime nozze, pur in calo, rimangono più rappresentate nel Mezzogiorno mentre le unioni libere e le ricostituite coniugate crescono ovunque nel Paese, anche se sono più diffuse al Nord e al Centro. In particolare, le unioni libere e le ricostituite coniugate hanno incidenze doppie al Centro-nord (circa 12% e 7,4%) rispetto al Mezzogiorno (6,5% e 3,8%) ma vent’anni fa erano il triplo, nonostante i livelli più bassi.

 Le caratteristiche dei partner evolvono e sono differenti a seconda della tipologia di coppia. Le coppie coniugate hanno una struttura per età più invecchiata della media delle coppie; all’opposto quelle in libera unione sono mediamente più giovani: il 31,3% delle donne ha meno di 34 anni e il 30,7% è tra i 35 e i 44 anni, contro rispettivamente il 10,1% e il 19,5% del totale. Questa evidenza sembra confermare che la libera unione viene scelta dai più giovani come primo passo verso il matrimonio o come alternativa a esso.

 La diffusione delle unioni libere si riflette anche sulla genitorialità. Aumenta infatti molto l’incidenza delle coppie non coniugate con figli minori, dal 38,6% dell’inizio del millennio al 50,4%, mentre scende quella relativa al complesso delle coppie con minori (dal 41,2% al 36,6%).

 In vent’anni sono fortemente cresciute le donne in coppia con titolo universitario (dal 7,2% al 17,6%) o diploma superiore (dal 28,8% al 37,6%). Più modesti gli incrementi delle donne in coppia che si dichiarano occupate la cui incidenza eguaglia quella, in diminuzione, delle casalinghe (entrambe al 38% circa); crescono le donne in coppia in cerca di occupazione (6,4%), stabili le ritirate (14,6%).

 Le coppie in cui i partner hanno lo stesso livello di istruzione sono maggioritarie ma in forte diminuzione (dal 74,2% al 64,9%) nei vent’anni presi in esame. Crescono, invece, le coppie in cui uno dei due partner supera l’altro: oggi il caso più frequente è quello in cui la donna ha un titolo di studio più alto (20,7% contro 14,4%) ma all’inizio del millennio accadeva il contrario (12,4% contro 13,4%). La diffusione delle coppie con donna più istruita dell’uomo è maggiore nelle coppie ricostituite coniugate (25,9% da 13,5% del 2001) e ancora di più nelle unioni libere (28,9% da 21,5%).

 Le coppie con donna fino a 64 anni in cui ambedue i partner si dichiarano occupati sono il 42,3%. Il trend di crescita delle coppie a doppio lavoro emerge solo per quelle in cui la donna ha tra 45 e 54 anni (da poco più di una coppia su tre a una su due). La situazione è rimasta più o meno la stessa di vent’anni fa per le coppie in cui la donna ha da 35 a 44 anni (circa il 52%) mentre è in deciso calo la percentuale di coppie in cui lavorano entrambi con donna tra i 25 e i 34 anni (da 51,3% a 46,5%). Tra le coppie non coniugate quelle in cui entrambi dichiarano di lavorare sono il 57,9% contro circa il 40% delle coppie ricostituite coniugate e delle coppie tradizionali.

 Le unioni civili tra persone dello stesso sesso, introdotte nel 2016, dopo una progressiva stabilizzazione (2.808 unioni nel 2018 e 2.297 nel 2019) subiscono un forte calo nel 2020 (1.539,
-33,0% su anno precedente) che non è compensato dalla ripresa del 2021 (circa 2mila, -6,2% rispetto al 2019), accentuando la tendenza alla diminuzione già in atto.
La permanenza dei giovani nella famiglia di origine

 Nel 2021 sono poco più di 7 milioni i giovani di 18-34 anni che vivono in casa con i genitori (67,6%), in aumento di 9 punti dal 2010, cioè prima che gli effetti della Grande recessione tornassero a far crescere la permanenza in famiglia. Rispetto al 2019, ossia prima della pandemia, la permanenza è cresciuta di 3,3 punti.

 Nel Mezzogiorno la situazione per i giovani in famiglia è più critica. Non solo perché in questa area del Paese sono relativamente di più quelli che vivono con i genitori (il 72,8% contro il 63,7% del Nord e il 67% del Centro) ma anche per l’alta incidenza di giovani in famiglia che si dichiarano disoccupati (35%), doppia rispetto al Nord (17%), e la contestuale bassa incidenza di quelli occupati (29% nel Mezzogiorno contro 46% nel Nord).

 Su totale dei giovani occupati di 15-34 anni, nel 2021 un ragazzo su tre e quattro ragazze su dieci sono dipendenti a tempo determinato, più del doppio di quanto registrato sul totale degli occupati
15-64enni (15,7% tra gli uomini e 17,3% tra le donne).
La condizione degli anziani e il bisogno di assistenza

 Nel 2019 circa 7 milioni di anziani (52,1%) sono autosufficienti nelle attività quotidiane di cura personale e della vita domestica: due su tre sono 65-74enni, il 54% uomini. Oltre 1,6 milioni vivono da soli e i restanti 5,3 milioni in famiglia, rappresentando una potenziale risorsa a sostegno di altri familiari.

 Sette “giovani anziani” di 65-74 anni su dieci sono completamente autonomi nelle attività di cura personale o della vita domestica; dopo gli 85 anni gli autonomi crollano al 13% mentre salgono a sette su dieci quelli con gravi riduzioni nell’autonomia (56,7% tra gli uomini e 77,9% tra le donne).

 Le persone anziane che vivono nel Sud e nelle Isole sono le più svantaggiate, anche a parità di età. Il gap si amplia per le donne: tra le ultraottantacinquenni quelle con gravi difficoltà sono il 74,4% al Nord e al Centro e l’85,5% nel Mezzogiorno.

 Dei 6,4 milioni di anziani con limitazioni gravi o moderate il 33,7% dichiara di non sentirsi adeguatamente aiutato mentre l’aiuto è sufficiente per il 39% e non necessario per il 27,4%. In totale sono circa 4,6 milioni gli anziani con moderate o gravi limitazioni nella cura della persona o della vita domestica che dichiarano di aver bisogno di aiuto per svolgere tali attività.

 In Italia è la famiglia la principale rete di aiuti informali nell’assistenza agli anziani: il 43,2% degli anziani con ridotta autonomia si avvale in modo esclusivo del supporto dei propri familiari (sia conviventi che non conviventi), il 12,3% insieme ad altre persone che li aiutano, sia che si tratti di personale a pagamento (9,2% dei casi), sia di amici o volontari comunque a titolo gratuito (3%).

 Solo il 9,4% degli anziani con riduzione dell’autonomia è aiutato esclusivamente da persone esterne alla famiglia, di cui il 7,5% solo a pagamento. Il 5,3% dichiara di non ricevere alcun aiuto anche quando vive con altri familiari.

 In Italia sono circa 7 milioni le persone che si prendono cura, con frequenza almeno settimanale, dei familiari con problemi di salute dovuti all’invecchiamento o a patologie croniche. Quasi 1 milione si dedica invece all’assistenza di persone esterne alla famiglia.

 I caregiver hanno per lo più tra i 45 e i 64 anni; in questa classe di età sono circa una donna su quattro e circa un uomo su cinque. Anche gli anziani svolgono un ruolo attivo nelle reti informali: sono caregiver il 16,2% dei 65-74enni e il 10% circa degli ultrasettantacinquenni. Non di rado il supporto dei caregiver anziani (1,5 milioni, l’11% degli anziani) è rivolto a un familiare non autonomo, sia in casa (900mila) che fuori (600mila).
La presenza straniera in Italia

 Al 1° gennaio 2022 gli stranieri residenti in Italia sono 5.193.669. In tre anni sono cresciuti meno di 200mila unità.

 Ammontano a circa 1 milione e 500mila le persone che hanno acquisito la cittadinanza italiana al 1° gennaio 2020. I nuovi cittadini hanno un’età media più alta di oltre 4 anni rispetto ai cittadini stranieri residenti e sono soprattutto di origine albanese e marocchina.

 Nell’ultimo decennio si è assistito a una contrazione senza precedenti dei flussi per motivi di lavoro, a una sostanziale stabilità di quelli per ricongiungimento familiare e a una rapida crescita degli arrivi di persone in cerca di protezione internazionale.

 Durante il 2021 si è registrata una ripresa delle concessioni di nuovi permessi – in totale quasi 242mila, +127% rispetto al 2020 – e anche i nuovi documenti per asilo sono tornati a crescere: ne sono stati emessi quasi 31mila (+129% in un anno).

 Nel 2021 la maggior parte dei permessi per asilo e protezione è stata concessa a cittadini del Pakistan (6.090 nuovi documenti rilasciati) seguiti a distanza dai cittadini del Bangladesh (quasi 5mila permessi) e della Nigeria (oltre 3mila).

 La struttura di genere della presenza straniera è nell’insieme equilibrata: il rapporto tra i sessi è di 95 donne ogni 100 uomini. Il bilanciamento generale cela però forti squilibri all’interno delle diverse collettività: per ucraini e russi la componente femminile supera il 75% della presenza totale. Alcune collettività, come quelle del Bangladesh, egiziana e pakistana, risultano invece sbilanciate al maschile e la percentuale di donne si aggira tra il 28 e il 34%.

 Nel 2021 ha un permesso di soggiorno valido il 47% dei migranti entrati nel 2007. Gli ucraini sono i più stabili sul territorio, i cinesi i meno stabili. Solo il 6,8% ha ottenuto la cittadinanza italiana tra il momento dell’ingresso, nel 2007, e il 2021.

 Per i migranti giunti in Italia nel 2012 o nel 2016 la quota di chi ha un documento ancora valido al 1° gennaio 2021 si aggira intorno al 35%. La propensione a stabilirsi in Italia è più bassa tra gli arrivati nell’ultimo decennio.

 La comunità romena è distribuita lungo tutta la Penisola secondo un modello insediativo chiaramente diffusivo che supera il dualismo Nord-Sud. Gli albanesi sono insediati soprattutto nel Centro Italia e nelle aree costiere dell’Emilia-Romagna. Per i marocchini, abbastanza presenti sul territorio, spiccano aree a maggiore concentrazione nelle zone nord-orientali, in Emilia-Romagna e nella Val Padana.

 I cinesi sono concentrati in zone specifiche come il comune di Roma, l’area di Prato, ma anche alcune aree del Sud e del Nord-est, soprattutto Emilia-Romagna e Veneto. Gli egiziani mostrano un modello insediativo chiaramente metropolitano con due centri maggiori, Roma e Milano.

 Gli ucraini presenti nel nostro Paese al 1° gennaio 2021 sono 236mila e rappresentano la quinta collettività per numero di residenti (il 4,6% di tutti gli stranieri). Sono invece circa 30mila quelli che hanno acquisito la cittadinanza italiana. La stabilizzazione della presenza ucraina non si è accompagnata a un riequilibro dei rapporti di genere, le donne sono ancora il 77,6% dei residenti.

 In base ai dati del Ministero dell’Interno aggiornati all’11 giugno 2022, sono 132.129 le persone in fuga dal conflitto in Ucraina giunte da febbraio in Italia: 69.493 donne, 20.181 uomini e 42.455 minori.
Famiglie con stranieri e seconde generazioni

 Al 1° gennaio 2020 sono oltre 1 milione i minorenni nati in Italia da genitori stranieri (di seconda generazione in senso stretto), il 22,7% dei quali (oltre 228mila) ha acquisito la cittadinanza italiana.

 Tra il 2011 e il 2020 quasi 400mila ragazzi stranieri hanno acquisito la cittadinanza per trasmissione dai genitori. Nello stesso periodo si sono registrate oltre 57mila acquisizioni di cittadinanza per elezione da parte di nati in Italia al compimento del diciottesimo anno di età.

 Considerando i requisiti previsti dalla proposta per lo ius scholae, la platea di aventi diritto è stimabile in circa 280mila ragazzi. Risiede in Lombardia oltre il 25% dei potenzialmente interessati alla variazione della legge.

 Gli studenti con background migratorio (stranieri + italiani per acquisizione della cittadinanza) iscritti nelle scuole italiane nell’anno scolastico 2019/2020 superano il milione.

 Gli alunni con cittadinanza acquisita sono circa 264mila e rappresentano il 3% degli alunni nelle scuole primarie, il 3,6% nelle scuole secondarie di primo grado e il 3,5% di quelle secondarie di secondo grado.

 Nel 2021, le famiglie con almeno uno straniero sono 2 milioni e 400mila, il 9,5% del totale. Quasi tre su quattro hanno componenti tutti stranieri mentre è mista poco più di una famiglia su quattro.

 Più della metà delle famiglie con almeno uno straniero vive nel Nord del Paese, circa un quarto nel Centro e la restante parte nel Mezzogiorno (18,7%).

 L’11,3% degli alunni stranieri delle scuole secondarie giudica la propria famiglia abbastanza o molto povera. Si colloca nella modalità intermedia “né ricca né povera” l’84,1% degli stranieri e l’86,3% degli italiani. A sentirsi molto o abbastanza ricchi sono invece il 4,5% degli stranieri e il 9,7% degli italiani.

 I ragazzi stranieri hanno percepito il peggioramento della situazione economica durante la pandemia più degli italiani, il 39,1% contro il 28,7%.

 Tra gli alunni stranieri delle scuole secondarie il 78,5% pensa in italiano. Rispetto all’autovalutazione delle competenze, circa tre ragazzi su quattro dichiarano di parlare e leggere ‘molto bene’ l’italiano, ancora di più sono coloro che pensano di comprenderlo molto bene, meno numerosi invece quelli che ritengono di scriverlo altrettanto bene.

 “Il futuro mi affascina” è la risposta fornita dal 51,6% dei ragazzi stranieri; per le ragazze la percentuale è molto più contenuta mentre assume maggiore rilievo la modalità “il futuro mi fa paura”, scelta dal 38,5% delle alunne e dal 24,0% degli alunni.

 Rispetto al Covid-19 i giovani stranieri delle scuole secondarie si dicono molto o abbastanza preoccupati nel 46,4% dei casi mentre l’11,9% è per niente preoccupato (tra i ragazzi italiani la preoccupazione è maggiore). Più in generale, il 34,7% si dichiara molto preoccupato per le malattie (32,7% tra gli italiani).

 Al centro dell’attenzione degli alunni stranieri delle scuole secondarie è invece l’ambiente, che preoccupa molto il 60,5% degli intervistati, timore condiviso anche dai ragazzi italiani.

 Per molti giovani il futuro è altrove. Il 59% degli alunni stranieri delle scuole secondarie da grande vuole vivere all’estero contro il 42% degli italiani. Questo desiderio è più diffuso tra le ragazze (66,3%) rispetto ai coetanei maschi (52%).

 

 

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CAPITOLO 4
Le diverse forme della disuguaglianza
La vulnerabilità nel mercato del lavoro, il disagio economico delle famiglie, il diverso accesso all’istruzione e alle competenze digitali, la presenza di disabilità, personali o di familiari che richiedono assistenza, sono tutte forme di disuguaglianza che caratterizzano il nostro Paese.
Nel tempo è progressivamente diminuita l’occupazione standard, a tempo pieno e a durata indeterminata, mentre sono sempre più diffuse modalità ibride di lavoro. La conseguenza è il peggioramento della qualità complessiva dell’occupazione. La combinazione tra contratti di lavoro di breve durata e intensità e una bassa retribuzione oraria si traduce in livelli retributivi annuali decisamente ridotti. Inoltre, la presenza all’interno della famiglia di individui che si trovano in una posizione di svantaggio rispetto al mercato del lavoro può determinare condizioni di forte disagio economico.
Negli ultimi dieci anni la povertà assoluta è progressivamente aumentata, raggiungendo i valori massimi dal 2005 nel biennio 2020-21, nonostante la messa in campo di misure dirette a sostenere il reddito delle famiglie che ne hanno limitato la diffusione. I minori, oltre a presentare elevati livelli di povertà assoluta, sono anche quelli che, complice l’effetto della pandemia, hanno visto diminuire le proprie competenze e limitare le attività legate allo sviluppo emotivo e relazionale. Le disuguaglianze nelle competenze digitali si sono ridotte, anche rispetto al resto d’Europa.
La recente accelerazione dell’inflazione rischia di aumentare le disuguaglianze, sia per la diminuzione del potere d’acquisto, più marcata tra le famiglie con forti vincoli di bilancio, sia per le tempistiche dei rinnovi contrattuali, più lunghe in settori con bassi livelli retributivi.
Donne, giovani, residenti nel Mezzogiorno e stranieri si confermano i soggetti più fragili, insieme ai portatori di disabilità e ai loro familiari.

I lavoratori vulnerabili

 Le trasformazioni del mercato del lavoro hanno portato a una decisa diminuzione del lavoro standard, cioè di quello individuato nei dipendenti a tempo indeterminato e negli autonomi con dipendenti, entrambi con orario a tempo pieno. Nel 2021 queste modalità di lavoro riguardano il 59,5% del totale degli occupati.

 I lavoratori indipendenti sono progressivamente diminuiti – da quasi un terzo degli occupati all’inizio degli anni ’90 a poco più di un quinto nel 2021 (circa 4,9 milioni) – per effetto del calo di imprenditori, lavoratori in proprio (agricoltori, artigiani, commercianti), coadiuvanti e collaboratori. Il 73,1% di questo segmento di lavoratori non ha dipendenti.

 I lavoratori dipendenti a tempo determinato sono raddoppiati dall’inizio degli anni ’90, attestandosi a 2,9 milioni nel 2021. Negli anni è progressivamente aumentata la quota di occupazioni di breve durata: sempre nel 2021, quasi la metà dei dipendenti a termine ha un lavoro di durata pari o inferiore a 6 mesi.

 L’occupazione a tempo parziale è passata dall’11% dei primi anni ’90 al 18,6% dell’ultimo anno. Nel 60,9% dei casi il part-time è involontario, componente che ha mostrato la crescita più consistente.

 Quasi 5 milioni di occupati (il 21,7% del totale) sono non-standard, cioè a tempo determinato, collaboratori o in part-time involontario. Tra questi, 816mila sono sia a tempo determinato o collaboratori sia in part-time involontario.

 Sono lavoratori non standard il 39,7% degli occupati under35, il 34,3% dei lavoratori stranieri, il 28,4% delle lavoratrici, il 24,9% degli occupati con licenza media e il 28,1% dei lavoratori residenti nel Mezzogiorno. La sovrapposizione di tali caratteristiche aggrava le condizioni di debolezza nel mercato del lavoro: la quota di lavoratori non-standard raggiunge il 47,2% tra le donne sotto i 35 anni e il 41,8% tra le straniere.

 Una marcata concentrazione di lavoratori non-standard si rileva nel settore degli alloggi e ristorazione e in agricoltura (quattro su dieci), nel settore dei servizi alle famiglie (48,5%), in quello dei servizi collettivi e alle persone (31,9%) e in quello dell’istruzione (28,4%).

 Tra le professioni non qualificate (addetti alle consegne, lavapiatti, addetti alle pulizie di esercizi commerciali, collaboratori domestici, braccianti agricoli e simili) la quota di lavoratori non standard arriva al 47,5% mentre si attesta al 29,9% tra gli addetti al commercio e servizi (commesse, addetti alla ristorazione, baby sitter, badanti e simili). Nelle professioni qualificate, scientifiche e intellettuali, i lavori non standard si rintracciano tra ricercatori universitari, insegnanti, giornalisti e professionisti in ambito artistico.

 In 4 milioni e 300mila famiglie è presente almeno un occupato non-standard e in 1 milione e 900mila è l’unico occupato: in un terzo dei casi vive solo e in un ulteriore terzo in coppia con figli; solo nel 20% dei casi in famiglia è presente un ritirato dal lavoro.

 Ammontano a quasi 500mila gli “autonomi dipendenti”, ossia gli occupati che, pur essendo formalmente autonomi, sono vincolati da rapporti di subordinazione ad altra unità economica che ne limita l’accesso al mercato o l’autonomia organizzativa. Nel 35% dei casi sono lavoratori
non-standard, per un totale di circa 170mila occupati.

 Negli ultimi dieci anni sono più che raddoppiate le posizioni lavorative in somministrazione, da 167mila (in media mensile) nel 2012 a oltre 390mila nel 2021. Quelle intermittenti, nel 2021, si attestano invece a 214mila. Si tratta di tipologie contrattuali caratterizzate da un’importante componente non-standard: hanno infatti contratti a termine oltre il 70% dei lavoratori dipendenti in somministrazione e la maggioranza degli intermittenti; questi ultimi, inoltre, lavorano mediamente solo 11 giornate al mese.
Disuguaglianza nelle retribuzioni

 Circa 4 milioni di dipendenti del settore privato (con l’esclusione dei settori dell’agricoltura e del lavoro domestico) – il 29,5% del totale – percepiscono una retribuzione teorica lorda annua inferiore a 12mila euro (sono a bassa retribuzione annua) mentre per circa 1,3 milioni di dipendenti – il 9,4% del totale – la retribuzione oraria è inferiore a 8,41 euro l’ora (sono a bassa retribuzione oraria). Tra questi, quasi 1 milione percepiscono meno di 12mila euro l’anno e meno di 8,41 euro l’ora.

 Solo 6,5 milioni di dipendenti del settore privato (esclusi i settori dell’agricoltura e del lavoro domestico) hanno un’occupazione a tempo indeterminato e full time per l’intero anno. Le loro retribuzioni annuali sono superiori anche a quelle degli altri dipendenti che, pur essendo a tempo parziale o determinato, hanno lavorato in tutti i mesi dell’anno: i dipendenti a tempo pieno e a termine hanno retribuzioni inferiori di quasi il 30%, quelli a tempo parziale e indeterminato di oltre il 50% e i dipendenti a tempo parziale e a termine di oltre il 60%.

 I lavoratori a bassa retribuzione oraria (inferiore a 8,41 euro lordi) sono più spesso giovani fino a 34 anni, donne, stranieri (soprattutto extra-Ue), con basso titolo di studio e residenti nel Sud. Se in molti casi si tratta di giovani ancora nella famiglia di origine, non è infrequente che siano genitori soli o in coppia. Sono più spesso occupati nel settore degli altri servizi (come ad esempio, organizzazioni associative, attività di servizi per la persona, riparazione di beni per uso personale e per la casa), in quelli di supporto alle imprese e di intrattenimento, alloggio e ristorazione, istruzione privata.

 Le imprese che assicurano le condizioni retributive migliori sono anche quelle dove prevalgono nettamente le posizioni lavorative a tempo pieno e indeterminato: si tratta di un numero esiguo di imprese, meno di 60mila, di dimensioni elevate, che rappresentano circa un sesto delle posizioni; le retribuzioni orarie superano in media i 15 euro.

 Gli individui con più basse retribuzioni sono occupati in prevalenza in imprese che offrono condizioni lavorative più svantaggiose, dove basse retribuzioni orarie si combinano con contratti a tempo determinato o part time (circa 700mila imprese per circa il 27% di posizioni). Tuttavia quasi la metà lavora in imprese (circa 420mila, che rappresentano quasi un terzo delle posizioni) caratterizzate dalla coesistenza di posizioni standard, nel complesso prevalenti, e posizioni a tempo parziale o a termine.

 La crescita dei prezzi osservata dalla seconda metà del 2021 fino a maggio 2022, in assenza di ulteriori variazioni al rialzo o al ribasso, potrebbe determinare a fine anno una variazione dell’indice armonizzato dei prezzi al consumo pari a +6,4%. Senza rinnovi o meccanismi di adeguamento ciò comporterebbe un’importante diminuzione delle retribuzioni contrattuali in termini reali che, a fine 2022, tornerebbero sotto i valori del 2009.
Le famiglie in disagio economico

 Dal 2005 la povertà assoluta è più che raddoppiata: le famiglie coinvolte sono passate da poco più di 800mila a 1 milione 960mila nel 2021 (il 7,5% del totale). Per effetto della diffusione più marcata del fenomeno tra le famiglie di ampie dimensioni, il numero di individui in povertà assoluta è quasi triplicato, passando da 1,9 a 5,6 milioni (il 9,4% del totale).

 La connotazione delle famiglie in povertà assoluta è progressivamente cambiata dal 2005. L’incidenza è diminuita tra gli anziani soli, si è stabilizzata tra le coppie di anziani, è fortemente cresciuta tra le coppie con figli, tra i monogenitori e tra le famiglie di altra tipologia (famiglie con due o più nuclei o con membri aggregati).

 Una dinamica particolarmente negativa in termini di povertà assoluta si osserva per i minori (dal 3,9% del 2005 al 14,2% del 2021) e i giovani di 18-34 anni (dal 3,1% all’11,1%). Nel 2021 sono in povertà assoluta 1 milione 382mila minori, 1 milione 86mila 18-34enni e 734mila anziani (tra i quali l’incidenza nel tempo rimane sostanzialmente stabile e nel 2021 si attesta al 5,3%).

 Si conferma e si amplia nel tempo la netta stratificazione della povertà per area geografica, età e cittadinanza. Nel 2021 è in condizione di povertà assoluta un italiano su venti nel Centro-nord, più di un italiano su dieci nel Mezzogiorno e uno straniero su tre nel Centro-nord (il 40% nel Mezzogiorno); tra le famiglie con minori, si trova in povertà assoluta l’8,3% delle famiglie di soli italiani e ben il 36,2% di quelle di soli stranieri.

 Dal 2014 l’aumento del numero di famiglie povere si è associato alla sostanziale stabilità dell’intensità della povertà (ossia “quanto sono poveri i poveri”), pari al 18,7% nel 2021.

 Le misure di sostegno economico erogate nel 2020, in particolare reddito di cittadinanza e di emergenza, hanno evitato a 1 milione di individui (circa 500mila famiglie) di trovarsi in condizione di povertà assoluta.

 Le misure di sostegno hanno avuto effetto anche sull’intensità della povertà che, senza sussidi, nel 2020 sarebbe stata ben 10 punti percentuali più elevata, raggiungendo il 28,8% (a fronte del 18,7% osservato).

 In assenza di sussidi nel 2020 l’incidenza di povertà assoluta sarebbe stata marcatamente più elevata per le famiglie residenti nel Sud e nelle Isole (+3,4 e +4,5 punti rispettivamente), per quelle in affitto (+5,3 punti) e con stranieri (+3,5 punti), per i single con meno di 65 anni (+3,1 punti), le coppie con figli (+2,4 punti se i figli sono almeno tre) e i monogenitori (+2,8 punti). Infine l’incidenza avrebbe superato il 30% tra le famiglie con persona di riferimento in cerca di occupazione (ben 11,1 punti percentuali superiore a quella stimata in presenza di sussidi).

 La forte accelerazione dell’inflazione negli ultimi mesi rischia di aumentare le disuguaglianze poiché la riduzione del potere d’acquisto è particolarmente marcata proprio tra le famiglie con forti vincoli di bilancio. Per questo gruppo di famiglie a marzo 2022 la variazione tendenziale dell’indice armonizzato dei prezzi al consumo è risultata pari a +9,4%, 2,6 punti percentuali più elevata dell’inflazione misurata nello stesso mese per la popolazione nel suo complesso.

 L’inflazione che colpisce le famiglie con forti vincoli di bilancio riguarda beni e servizi essenziali, il cui consumo difficilmente può essere ridotto. Oltre agli alimentari vi figura la spesa per l’energia, che questo segmento di famiglie destina per il 63% all’acquisto di beni energetici a uso domestico (energia elettrica, gas per cucinare e riscaldamento). Al contrario, tra le famiglie più benestanti oltre la metà della spesa per energia (55%) va in carburanti e lubrificanti.
L’esperienza della DAD tra difficoltà e opportunità

 Da aprile 2020 la crisi sanitaria ha imposto l’utilizzo della didattica a distanza nelle scuole, affiancata dalla didattica digitale integrata nell’anno scolastico 2020/2021. In base a quanto riportato dai dirigenti scolastici, già prima della pandemia poco più del 60% delle scuole secondarie disponeva di un ambiente virtuale/piattaforma per la condivisione dei materiali didattici (escludendo il registro elettronico); nel 38,8% dei casi lo utilizzava solo una parte dei docenti. Quasi il 90% degli istituti privi di tali ambienti/piattaforme sono comunque riusciti ad attivarli nel periodo marzo-giugno 2020 e un ulteriore 10% lo ha fatto, seppur con molte difficoltà, durante l’a.s. 2020/2021.

 Le principali criticità segnalate dai dirigenti scolastici delle scuole secondarie sono l’inadeguatezza della connessione Internet della scuola (50%) e la mancanza di spazi adatti a garantire il distanziamento (45,8%); meno diffuse le criticità legate alla mancanza di arredi e di strumenti informatici adeguati, all’insufficiente aereazione delle aule o all’igienizzazione e disinfezione dei locali. I dirigenti che hanno dichiarato di non aver incontrato alcuna difficoltà ad adeguarsi ai provvedimenti anti-Covid sono poco meno del 20%, quota che scende al 18,5% nel Mezzogiorno e al 13,2% nel Centro.

 Sebbene già provviste di competenze digitali, il ricorso “obbligato” alla didattica a distanza ha imposto alle nuove generazioni un cambio di passo nell’utilizzo dell’Ict, generando così nuovi elementi di diseguaglianza legati a divari socio-economici e digitali preesistenti la pandemia. Sono poco più di quattro su dieci gli studenti delle scuole secondarie che hanno avuto a disposizione una connessione di ottima qualità; uno studente su due ha lamentato problemi e circa uno su venti ha avuto una connessione di pessima qualità o del tutto assente.

 Tra gli studenti che giudicano molto o abbastanza povera la propria famiglia, il 78,2% ha lamentato problemi di connessione contro il 44,4% di quanti vivono in famiglie più agiate.

 Solo il 79,3% dei ragazzi delle scuole secondarie ha potuto seguire le lezioni con continuità fin dall’inizio; tra marzo e giugno 2020 più di 700mila hanno seguito la didattica solo saltuariamente e 156mila non hanno ricevuto formazione, con inevitabili conseguenze negative sui livelli di apprendimento che probabilmente dureranno nel tempo.

 Le scuole, insieme ad altre strutture pubbliche e del privato sociale, hanno cercato di sostenere i ragazzi più svantaggiati mettendo a disposizione pc e tablet. Nonostante ciò, nel Mezzogiorno solo otto studenti su dieci si sono collegati tramite il pc per seguire on line le lezioni nell’a.s. 2020/2021
– una quota più bassa di 5 punti rispetto a quelle del Centro e del Nord – e molto più diffuso è stato l’utilizzo dello smartphone, in modalità esclusiva o combinata ad altri dispositivi comunque poco idonei per la didattica a distanza.

 I ragazzi stranieri sono stati più penalizzati sia per la minore continuità della DAD nella seconda parte dell’a.s. 2019/2020 sia per la maggiore difficoltà a seguire le lezioni nell’anno successivo: la percentuale di chi ha utilizzato il pc è più bassa rispetto a quella degli italiani (72,1% contro 85,3%) mentre è più alta quella sull’uso esclusivo dello smartphone (16,8% contro 6,8%). Tali divari si ampliano ulteriormente nel Mezzogiorno.

 Le prove Invalsi condotte nell’anno scolastico 2020/2021 evidenziano una perdita generalizzata degli apprendimenti di italiano e matematica. La perdita diventa più evidente al crescere del grado di istruzione: tra gli studenti di scuola secondaria di secondo grado i livelli di competenza raggiunti nel 2021 per l’italiano sono inadeguati in 44 casi su 100, per la matematica in 51 casi su 100.

 In Italia, grazie anche alle misure messe in atto in questi ultimi due anni per affrontare l’emergenza sanitaria (incluso il “voucher connettività” introdotto nel 2020 a sostegno delle famiglie meno abbienti) la diffusione e la frequenza dell’uso di Internet nei diversi ambiti della vita quotidiana hanno registrato un deciso aumento, riducendo il gap con il resto d’Europa (la distanza dalla media Ue si è ridotta da 10 a 7 punti percentuali).
Disabilità e disuguaglianza: causa o effetto?

 In Italia sono circa 2 milioni 800mila (il 10,7% del totale) le famiglie che hanno un componente con disabilità, la cui presenza comporta una minore partecipazione al mercato del lavoro. Tra le persone di 15-64 anni con limitazioni gravi gli occupati sono un terzo (media 2020-2021), ossia la metà rispetto alla popolazione senza limitazioni. Il gap di occupazione si riflette anche a livello familiare: tra i 35-64enni che vivono con persone con disabilità gli occupati sono solo il 58,6% contro il 69,4% di chi non ha conviventi con limitazioni.

 Nel 2019, le famiglie in cui sono presenti persone con disabilità hanno un reddito medio disponibile di circa il 5% inferiore a quello delle altre famiglie e in circa la metà dei casi ricevono trasferimenti economici; senza tali trasferimenti il rischio di povertà tra le famiglie con persone con disabilità salirebbe dal 20% al 32,8%.

 Ben un quinto delle persone con limitazioni gravi si dichiara in cerca di occupazione (contro il 13,5% delle persone senza limitazioni) e oltre un quarto se hanno tra 25 e 44 anni (contro il 16,4%). Tra le donne con limitazioni gravi la quota delle disoccupate è simile a quella registrata tra le donne senza limitazioni (13,6% rispetto a 12,2%), mentre molto più elevata è la quota di chi si dichiara inattiva (41,3% rispetto a 25,7%), a indicare sintomi di un marcato scoraggiamento nella ricerca di occupazione.

 Alle pre-esistenti difficoltà, strutturali e non, del sistema scolastico nel gestire la disabilità, negli anni più recenti si sono aggiunte le problematiche legate all’emergenza sanitaria. Tuttavia, nell’a.s.
2020-2021 l’inclusione nella vita scolastica dei giovani con disabilità è decisamente migliorata: la quota di esclusi, pari al 23% l’anno precedente, è scesa al 2% (al 3% nelle scuole del Sud, con i massimi del 4% in Calabria e Campania). Sono quasi 7mila i ragazzi con disabilità esclusi dalle lezioni online. Tra le motivazioni che ne hanno determinato l’esclusione le scuole segnalano più frequentemente: la gravità della patologia, il disagio socio-economico e la difficoltà organizzativa della famiglia, la mancanza di strumenti tecnologici adeguati.

 

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Sintesi presentata da Gian Carlo Blangiardo, Presidente dell’Istat a Roma – Palazzo Montecitorio

Introduzione

Signor Presidente della Camera dei Deputati, Autorità tutte, buongiorno.
Con questo trentesimo rapporto l’Istat intende fornire una fotografia dell’Italia oggi, alla luce della sua storia recente, evidenziandone i passi in avanti e gli ostacoli da affrontare, sottolineando le forti capacità di resilienza e le grandi vulnerabilità che emergono con oggettiva evidenza dalle informazioni statisti- che più aggiornate.
Dopo lo shock della pandemia, con una caduta del Pil senza precedenti dalla Seconda Guerra Mondiale, la ripresa è stata rapida e robusta. Anche grazie al miglioramento delle condizioni sanitarie il Paese si avviava a rivi- vere gradualmente la propria normalità. Tuttavia se già nella seconda parte del 2021 si erano manifestati alcuni deboli segnali di tensione per l’economia, con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia si sono creati nuovi e importanti ostacoli e sono emersi numerosi elementi di incertezza sia per le imprese, sia per quei cittadini che speravano in un rapido percorso verso un futuro migliore.

Benché le misure adottate dal Governo siano state, come era accaduto durante la pandemia, puntuali e mirate, la ripresa è stata messa a rischio dal sovrapporsi di diversi fattori: dal prolungarsi della guerra, alla crescente inflazione, agli effetti dei cambiamenti climatici, all’acuirsi delle diverse forme di disuguaglianza, che purtroppo rappresentano una pesante eredità del passato biennio. Un fenomeno preesistente già da lungo tempo e rispetto al quale, nonostante l’intervento pubblico, i dati Istat mostrano una crescita sensibile e su più fronti.
Per questo, e per molti altri fenomeni e realtà del nostro tempo, la statistica ufficiale mette a disposizione un’informazione oggettiva, un vero e proprio bene pubblico, prodotta in modo autonomo e indipendente, che rappresenta la base fondamentale per la conoscenza del Paese e dei suoi cambiamenti, nonché per la progettazione delle politiche più adeguate per governarne lo sviluppo. È una informazione che proviene dai Censimenti, recentemente modernizzati da diversi punti di vista, dalle indagini campionarie, dai registri e dagli atti amministrativi, dai big data, tutte fonti che trovano utilizzo in for- ma sempre più integrata.
Al riguardo, ricordo che l’Istituto nel corso di questo biennio, in aggiunta alla produzione corrente, ha condotto tre indagini molto ampie per monitorare l’evoluzione della situazione delle imprese, partendo dalla base informati- va costruita col primo Censimento permanente delle imprese realizzato nel 2019. Così come sono state realizzate tre indagini specifiche sull’universo dei cittadini, per studiarne reazioni e comportamenti, e sono stati diffusi i risultati dei Censimenti della popolazione e delle abitazioni, delle Istituzioni pubbliche e dell’Agricoltura.

L’Istat sta altresì dando il suo contributo alla transizione digitale con un pro- getto del PNRR di grande rilevanza strategica e ne è soggetto attuatore: la realizzazione di un Catalogo Nazionale Dati. Questa iniziativa favorirà lo scambio, l’armonizzazione e la comprensione delle informazioni tra le Amministrazioni pubbliche nell’ambito della Piattaforma Digitale Nazionale Dati. Ci impegneremo nella mappatura delle banche dati e dei flussi informativi, nella documentazione di schemi di dati e nella distribuzione del catalogo e forniremo anche servizi di formazione e di supporto per accompagnare le Amministrazioni pubbliche nel percorso di transizione digitale.
Due anni di pandemia

Da febbraio 2020 la pandemia da SARS-CoV-2, e i vari risvolti che ne sono conseguiti, hanno dominato la scena nazionale e internazionale. A poco più di due anni dall’inizio dell’emergenza sanitaria, è possibile tracciare un ac- curato bilancio delle sue conseguenze sul tessuto sociale e produttivo del nostro Paese.
Con 16 milioni di contagi e oltre 160 mila decessi associati alla diagnosi di infezione da SARS-CoV-2 registrati tra marzo 2020 e aprile 2022, l’Italia è stata, insieme alla Spagna, tra i paesi Ue maggiormente colpiti dalla pande- mia, soprattutto nella prima fase. Nel confronto con il quinquennio pre-pandemico 2015-2019, l’eccesso di mortalità registrato è stato particolarmente elevato nel 2020, specialmente tra la popolazione anziana e in condizione di fragilità, mentre già nel corso del 2021 l’avvio della campagna vaccinale ha avuto un impatto positivo nel contrastare la diffusione della malattia e nel ridurre la mortalità a essa associata. Durante le fasi più intense di diffusione del virus i tassi di mortalità sono aumentati in particolare tra le persone con basso livello di istruzione e in situazioni socio-economiche più svantaggiate, con un conseguente incremento delle disuguaglianze di mortalità.
Nel panorama europeo, l’eccesso di mortalità registrato nel 2020 ha ridotto la posizione di vantaggio nella mortalità che il nostro Paese occupava nel periodo pre-pandemico, ma tale peggioramento è andato ridimensionando- si nel 2021 e ancor di più nel 2022. La campagna vaccinale avviata nell’ Unione Europea dalla fine di dicembre 2020 ha coinvolto gruppi di popolazione sempre più ampi, con un impatto molto positivo sulla riduzione della mortalità correlata al COVID-19. Ad aprile 2022, l’Italia, con l’80,1 per cento di vaccinati con ciclo primario, si colloca al terzo posto della graduatoria Ue, dopo Portogallo e Malta. Il nostro Paese emerge a livello europeo, secondo i dati raccolti da Eurobarometro, come quello con la maggiore adesione alle politiche sanitarie adottate a livello governativo. L’assoluta utilità dei vaccini nel contenere la diffusione delle complicanze della pandemia viene riconosciuta in Italia da quasi 9 persone adulte su 10, e altrettanti li ritengono del tutto sicuri.

L’impatto sulla normalità del vivere
L’emergenza sanitaria ha modificato le abitudini della popolazione, con un impatto rilevante sui vari aspetti della quotidianità: sull’organizzazione della giornata, sugli stili di vita, sul modo in cui sono state coltivate le relazioni parentali e amicali, sul tempo libero, sul lavoro. Gli stravolgimenti della vita quotidiana conseguenti al lockdown del bimestre marzo-aprile 2020 si sono attenuati nei mesi successivi e sono stati trasversali. Già nel 2021 sono emersi chiari segnali di un ritorno alla quotidianità pre-COVID, sebbene alcuni cambiamenti negli stili di vita sembrino persistere e potrebbero essere destinati a durare nel tempo. Tende a “normalizzarsi” la composizione delle 24 ore, con la maggioranza dei cittadini che impegna nelle varie attività la stessa quantità di tempo del periodo pre-pandemico. È aumentata la quota di persone che in un giorno medio esce di casa, ma siamo ancora distanti dalle percentuali relative all’epoca pre-COVID. Ancora a dicembre 2021 una persona su tre si trattiene fuori casa meno tempo e due su tre escono meno spesso di prima.
La ripresa delle attività extradomestiche nei periodi successivi della pandemia ha favorito il ritorno alle precedenti consuetudini anche per quanto riguarda il lavoro familiare facendo dimezzare, rispetto ad aprile 2020, la quota di quanti erano riusciti a dedicare più tempo alla pulizia della casa e alla preparazione dei pasti.
Nonostante la ripresa dei contatti in presenza, l’emergenza sanitaria ha prodotto cambiamenti profondi e duraturi nelle relazioni sociali: ancora durante la quarta ondata, solo per circa un terzo della popolazione adulta nulla è cambiato nei rapporti con i familiari non conviventi o con gli amici, mentre oltre metà della popolazione afferma di aver ridotto la frequenza degli incontri.

L’abitudine alla lettura di libri ha avuto un andamento positivo, sebbene non sia cambiato il profilo del lettore di libri che continua a essere alquanto modesto: connotato dalla lettura al massimo di 3 libri in un anno.
La pratica fisica e sportiva ha retto tra la popolazione adulta, grazie alla possibilità di svolgere attività anche in casa o in modo non strutturato in spazi all’aperto, mentre tra i più giovani di 6-14 anni si è osservata la de- crescita dello sport continuativo e l’aumento della sedentarietà.
La fruizione virtuale ha consentito ad alcune attività di tempo libero di essere coltivate anche durante la pandemia: è proseguita, accentuandosi, la crescita dell’utilizzo di dispositivi digitali ed è aumentato l’uso della rete per scaricare e/o leggere libri, quotidiani, riviste, giocare in rete/ scaricare giochi, guardare la tv in streaming o video on demand.

La partecipazione a eventi e spettacoli fuori casa, al pari di tutte le forme di partecipazione culturale e di passatempi che non hanno potuto beneficiare di una qualche forma di virtualizzazione, ha registrato tra il 2019 e il 2021 un vero e proprio crollo. In questo ambito l’Italia sta solo ora ricostruendo a fatica la sua normalità.

L’accelerazione del cambiamento demografico
La pandemia ha avuto un impatto rilevante su tutte le componenti di una dinamica demografica già in fase recessiva sin dal 2014. L’elevato eccesso di mortalità registrato nel 2020 è stato accompagnato dal quasi dimezzamento dei matrimoni per effetto delle misure di contenimento e dalla forte contrazione dei movimenti migratori. La nuzialità ha mostrato segnali di ripresa nel 2021 e, ancora di più, nei primi mesi del 2022, non riuscendo tuttavia ancora a tornare ai livelli del 2019. Il calo della nuzialità, non ancora recuperato, e la diminuzione di giovani coniugi che ne è seguita hanno ristretto il numero di potenziali genitori, il che lascia intendere, in un Paese dove la natalità deriva ancora prevalentemente da coppie coniugate, possibili ripercussioni negative sulle nascite anche nei prossimi anni. Durante il 2020 gli effetti negativi sulla natalità – almeno quelli riconducibili alla pandemia – si sono visti unicamente negli ultimi due mesi, in relazione alla forte caduta dei concepimenti nei mesi di marzo-aprile 2020. Il crollo della frequenza di nati si è però protratto in modo più marcato nei primi sette mesi del 2021, per poi dare segni di rallentamento verso la fine dell’anno. Tuttavia i primi dati provvisori del 2022 mostrano una nuova repentina spinta al ribasso. Di fatto nel primo trimestre di quest’anno si contano circa diecimila nati in meno rispetto allo stesso periodo del biennio pre-pandemico 2019-2020. Tutto ciò mentre nel panorama europeo va rilevato come, se è pur vero che la Spagna ha un pro- filo simile al nostro, la Francia e, soprattutto, la Germania abbiano registrato nel 2021 incrementi di natalità particolarmente significativi, anche rispetto agli andamenti pre-pandemici.

L’ampliarsi del deficit tra nascite e decessi – già avviato da quasi un trentennio – associato alla più recente contrazione del saldo migratorio ha innescato, con continuità a partire dal 2014, una fase di calo della popolazione, accentuato dagli effetti della pandemia, che si è accompagnato a profonde trasformazioni nella sua struttura per età. Al 1°gennaio 2022, secondo i primi dati provvisori, la popolazione residente in Italia scende a 58 milioni e 983 mila unità, cioè 1 milione e 363 mila individui in meno nell’arco di 8 anni. Alla stessa data ci sono 188 persone di almeno 65 anni per 100 giovani con meno di 15 anni, 56 in più rispetto a vent’anni fa; nei prossimi decenni si prevede un ulteriore incremento degli anziani rispetto ai giovani e la proporzione, secondo le stime più recenti, raggiungerà al 1° gennaio 2059 il picco di 306.

La progressiva diminuzione della popolazione tra 15 e 49 anni, dovuta all’ingresso nella vita adulta di generazioni sempre meno numerose a causa della denatalità, comporta a sua volta un effetto deprimente sullo stesso flusso di nuovi nati. Si è infatti calcolato che il 60 per cento del loro calo negli ultimi dieci anni sia dipeso dalla diminuzione dei potenziali genitori.
L’evoluzione della natalità nel tempo è fortemente condizionata, oltre che dal numero delle donne in età fertile e dall’intensità delle loro scelte riproduttive, anche rispetto al “calendario” con cui tali scelte si manifestano, in termini di età alla maternità. Va infatti considerato che le donne residenti in Italia hanno rinviato l’esperienza riproduttiva verso età sempre più avanzate: rispetto al 1995, l’età media al parto è aumentata di oltre due anni, arrivando a 32,2 nel 2020. Cresce nello stesso periodo, in misura ancora più marcata (oltre tre anni), l’età media materna alla nascita del primo figlio, che sale a 31,4 anni. Dal confronto con il 2001, i tassi di fecondità sono aumentati tra le donne con almeno 30 anni, mentre hanno continuato a diminuire tra le più giovani, a testimonianza di un progressivo rinvio della maternità che sembra essersi accentuato ulteriormente nel 2021. Ne consegue un crollo dei nati da donne meno che trentenni. Una diminuzione, già importante tra il 2001 e 2011, che raddoppia nel decennio seguente ed è solo in parte compensata dall’aumento di nascite da madri con 30 anni o più.
Nel 2021 le donne residenti in Italia hanno espresso un livello di fecondità media pari a 1,25 figli, lo stesso osservato nel 2001, ma in un contesto completamente diverso. Nei primi anni Duemila la tendenza che si osservava in- dicava infatti un recupero della fecondità dopo il minimo storico di 1,19 figli per donna registrato nel 1995. Ora siamo in discesa. A diminuire sono stati prevalentemente i nati da coppie di genitori entrambi italiani. I figli di coppie straniere, sono aumentati ma solo fino al 2012, allorché è iniziata anche per loro una fase di costante diminuzione, tuttora in corso. Negli anni 2020 e 2021 il numero di nati stranieri è sceso sotto le 60 mila unità, segnando un ritorno ai livelli di quindici anni fa, quando però gli stranieri residenti erano la metà degli attuali.

La denatalità ha avuto ripercussioni sui nati in corrispondenza di tutti gli ordini di nascita. I primogeniti nel 2020 presentano, rispetto al 2011, un calo del 28,1 per cento, superiore a quello registrato per i secondogeniti o per i nati di ordine successivo. Nello stesso arco temporale la diminuzione dei primogeniti arriva al 40 per cento se consideriamo i nati da coppie coniugate, sempre meno numerosi anche per effetto del contemporaneo calo della nuzialità. In generale va anche sottolineato come vada proseguendo, e rafforzandosi, l’aumento dei nati fuori dal matrimonio: nel complesso degli ordini di nascita siamo a quasi al 40% del totale, laddove erano solo il 10 per cento nel 2001.

 

La varietà delle forme familiari
Profondi cambiamenti sono avvenuti nelle forme familiari negli ultimi 20 anni. È aumentato il numero di famiglie, stimate a 25,6 milioni nel 2020-2021, ed è diminuito il numero medio di componenti, da 2,6 a 2,3, per la forte crescita delle famiglie costituite da persone che vivono da sole. Sono diminuite le coppie con figli e senza altre persone di più di 11 punti percentuali in 20 anni.Se all’inizio del nuovo millennio la famiglia nucleare formata da una coppia con figli era ancora la più frequente, seppure non più maggioritaria, ai giorni nostri è superata dalla famiglia unipersonale. Si assiste, in altri termini, a una polarizzazione, da un lato, si trovano le persone che, per motivi diversi, vivo- no da sole una fase della loro vita e, dall’altro, la famiglia nucleare classica della coppia con figli e senza altre persone.
Nel biennio 2020-2021 le coppie in Italia ammontavano a 13,9 milioni, quasi mezzo milione in meno rispetto a venti anni fa, con un cambiamento nel peso relativo dei vari tipi di coppia. Sono in diminuzione le coppie coniugate in prime nozze, mentre sono in aumento le libere unioni e le coppie ricostituite coniugate, in cui almeno uno dei due partner proviene da un precedente matrimonio.

Le coppie si sono trasformate anche al loro interno. Quelle in cui i partner hanno lo stesso livello di istruzione sono maggioritarie ma in forte diminuzione; crescono, invece, le coppie in cui il livello di uno dei due partner supera l’altro, e in tale contesto sono di più le donne, mentre all’inizio del millennio era vero il contrario. L’aumento delle coppie in cui la donna è più istruita dell’uomo rappresenta un cambiamento di vasta portata che coinvolge tutti i tipi di coppia e tutte le zone del Paese e potrà incidere anche sui processi di condivisione delle responsabilità familiari. Se dal punto di vista dell’istruzione i cambiamenti interni alla coppia sono stati molto accentuati, non altrettanto è avvenuto sul fronte del lavoro. Le coppie in cui ambedue i partner lavorano e le donne hanno fino a 64 anni non arrivano alla metà. La crescita delle coppie a doppio lavoro emerge solo per quelle in cui la donna ha da 45 a 54 anni. In 20 anni, per le coppie in cui la donna è più giovane, fino a 44 anni, la situazione invece è rimasta più o meno la stessa.

Coppie non coniugate, famiglie ricostituite, single non vedovi e monogenitori non vedovi sono tutte tipologie familiari in crescita: nel corso di un ventennio hanno quasi raddoppiato il loro peso percentuale arrivando al 36,7 per cento delle famiglie, laddove erano quasi il 20 per cento all’inizio del millennio
Secondo le più recenti previsioni, all’interno di una popolazione che pro- segue la sua tendenza a diminuire e a invecchiare, il numero di famiglie è invece destinato ad aumentare ulteriormente, raggiungendo i 26,2 milioni nel 2040, ma con un numero medio di componenti ancora in calo, da 2,3 a 2,1. Tra il 2021 e il 2040, proseguendo queste tendenze, le coppie con figli si ridurrebbero di un quinto, mentre continuerebbero ad aumentare quelle senza figli. E se la situazione si protraesse anche oltre il 2040, le coppie senza figli potrebbero numericamente sorpassare quelle con figli entro il successivo quinquennio. Nel 2040, inoltre, quasi 4 famiglie su 10 sarebbero costituite da persone sole, soprattutto anziani.
Nei percorsi di formazione e di sviluppo delle unità familiari, si recepisce il continuo spostamento in avanti di tutte le tappe cruciali dei percorsi di vita, a cominciare dall’uscita dei giovani dalla famiglia di origine. L’Italia è da tempo tra i paesi europei dove il rinvio delle tappe di transizione allo stato adulto è più accentuato e, conseguentemente, è più alta la quota di giovani di 18-34 anni che vivono con almeno un genitore, quasi il 70 per cento i, ben al di sopra della media europea che si ferma al 50 per cento.

 

L’immigrazione straniera tra radicamento e emergenza umanitaria
La pandemia ha avuto un impatto rilevante anche sui flussi migratori e sulle condizioni di vita della popolazione immigrata andando talvolta a inasprire pregresse condizioni di maggiore vulnerabilità dal punto di vista sanitario, occupazionale ed economico. L’emergenza sanitaria si è innestata in una nuova fase dell’immigrazione nel nostro Paese, caratterizzata dalla progressiva integrazione e radicamento di una buona parte della popolazione pre- sente sul territorio e, al contempo, dall’accentuazione di alcune emergenze umanitarie che accompagnano i flussi di mobilità.

La popolazione straniera in Italia al 1° gennaio 2022 è di 5 milioni e 194 mila residenti. In quattro anni, è aumentata meno di 200 mila unità. Alla base del rallentamento si collocano sia la riduzione dei flussi migratori in arrivo, sia l’assenza per lungo tempo di quei provvedimenti di regolarizzazione che in passato avevano dato luogo picchi nella registrazione anagrafica dei migranti. Per comprendere però pienamente le reali dinamiche migratorie nel corso degli ultimi anni si deve considerare un altro aspetto divenuto rilevante nel nostro Paese, come in altri paesi da più lungo tempo meta di immigrazione: l’acquisizione della cittadinanza. Tra il 2011 e il 2020 oltre 1 milione e 250 mila persone hanno ottenuto la cittadinanza italiana e si può stimare che al 1° gennaio 2021 i nuovi cittadini per acquisizione della cittadinanza residenti in Italia siano circa 1 milione e 600 mila. La popolazione con background migratorio (stranieri e italiani per acquisizione della cittadinanza), ha continuato a crescere, anche se non ai ritmi del passato, raggiungendo al 1° gennaio 2021 la quota di quasi 6 milioni e 800 mila residenti.

Nel 2021 si stimano 2 milioni e 400 mila famiglie con almeno uno straniero, il 9,5 per cento del totale delle famiglie: quasi tre su quattro hanno componenti tutti stranieri e poco più di una su quattro è mista, cioè con componenti stranieri e italiani. Più della metà delle famiglie con almeno un componente straniero vive al Nord, circa un quarto al Centro e la restante parte nel Mezzogiorno.
Siamo nella terza fase nella storia dell’immigrazione nel nostro Paese: il primo periodo, negli anni Settanta e Ottanta, era caratterizzato da una mode- rata immigrazione, il secondo, nei due decenni seguenti, da una crescita inattesa e straordinaria. Il terzo è stato contraddistinto dalla crisi economica e dalle emergenze umanitarie, un periodo durante il quale i flussi di nuovi arrivati in cerca di protezione internazionale si sono aggiunti a una presenza straniera ormai radicata sul territorio e alimentata da nuovi ingressi prevalentemente per motivi familiari.

I percorsi di integrazione sono naturalmente processi di tipo individuale, ma si può facilmente notare come da sempre le differenti collettività presenti in Italia seguano diversi modelli di integrazione. Le specificità dipendono in parte dal differente grado di maturità raggiunto dalla presenza sul territorio: alcune cittadinanze sono presenti in Italia sin dagli anni Ottanta, altre sono arrivate dopo la caduta del muro di Berlino, altre ancora solo durante le on- date migratorie legate alla crisi dei rifugiati degli ultimi anni. Si tratta di persone giunte in momenti storici e in congiunture economiche differenti e che hanno avuto più o meno tempo per dare vita a reti migratorie sul territorio. Inoltre i percorsi di integrazione degli stranieri nel nostro Paese non sono più solo a livello individuale, ma sempre più spesso, specie in certi territori, comprendono intere famiglie.
Tra i cittadini non comunitari si è assistito a una contrazione senza prece- denti dei flussi per motivi di lavoro, a una sostanziale stabilità degli ingressi per ricongiungimento familiare e a una improvvisa crescita degli arrivi di persone in cerca di protezione internazionale, causati da crisi politiche e guerre in vari parti del mondo, di cui la situazione dell’Ucraina non è che l’ultimo tragico esempio.

Gli ucraini presenti nel nostro Paese al 1° gennaio 2021 erano 236 mila: una comunità rilevante che rappresentava la quinta collettività per numero di residenti. Si tratta in molti di casi di una presenza di lunga data che si impose all’attenzione per la prima volta in Italia a inizio secolo con la regolarizzazione prevista dalla Legge Bossi-Fini. Allora chiesero di essere regolarizzati quasi 107 mila ucraini. La stabilizzazione della presenza ucraina, avvalorata da un numero non trascurabile di nuovi cittadini (circa 30 mila), non si è accompagnata a un riequilibro dei rapporti di genere: le donne sono ancora quasi l’80 per cento del totale. Nonostante la maggior parte dei profughi dall’Ucraina si dirigano verso altri paesi, la comunità radicata in Italia già prima dello scoppio del conflitto, è diventata punto di riferimento per ami- ci e familiari in fuga dalla guerra. In base ai dati del Ministero dell’Interno, aggiornati all’11 giugno 2022, sono 132.129 le persone in fuga dal conflitto in Ucraina giunte da febbraio in Italia: 69.493 sono donne, 20.181 uomini e 42.455 minori. I dati sono tuttora in crescita.

La popolazione straniera ha una struttura giovane. I giovanissimi di origine straniera crescono numericamente e la loro presenza diviene sempre più articolata: ci sono giovani nati in Italia da genitori stranieri, seconda gene- razione in senso stretto, giovani arrivati prima del compimento dei 18 anni, ragazzi figli di coppie miste, ecc. Alcuni hanno cittadinanza straniera, altri quella italiana dalla nascita o per acquisizione, normalmente per trasmissione da un genitore divenuto a sua volta italiano.
Nel complesso sono 1 milione e 300 mila circa i ragazzi stranieri o italiani per acquisizione della cittadinanza e rappresentano circa il 13 per cento del totale della popolazione residente in Italia con meno di 18 anni. La stima degli studenti con background migratorio iscritti nelle scuole italiane (com- prese quelle per l’infanzia) nell’anno scolastico 2019/2020 supera il milione di ragazzi. Considerando i requisiti previsti dalla proposta di accesso alla cittadinanza basata sullo ius scholae, in discussione in Parlamento, la platea di aventi diritto è stimabile in circa 280 mila ragazzi. Cinque regioni del Centro-nord, ospitano due terzi dei potenziali aventi diritto: Lombardia, Lazio, Emilia Romagna, Veneto e Piemonte. Si tratta di ragazzi di origine romena in un quarto dei casi, seguono i cittadini di Albania, Cina e Marocco.

Per gli studenti stranieri, anche per i nuovi cittadini, il percorso scolastico è spesso più difficile, risultando più svantaggiati dei nativi rispetto al rendimento scolastico, alle ripetenze e agli abbandoni. Tuttavia importanti segnali di integrazione derivano dall’autovalutazione delle competenze linguistiche che, come noto, sono un elemento fondamentale per l’integrazione e il senso di appartenenza della popolazione immigrata, oltre che uno dei requisiti richiesti per ottenere un permesso di soggiorno di lungo periodo o la cittadinanza italiana. Tra gli iscritti delle scuole secondarie, circa 3 ragazzi su 4 dichiarano di parlare e leggere “molto bene” l’italiano, ancora di più sono coloro che pensano di comprenderlo molto bene, meno numerosi invece quanti dichiarano di scriverlo altrettanto bene. Rilevanti le differenze se si tiene conto del paese di nascita e dell’età all’arrivo. Tra gli alunni stranieri appartenenti alle seconde generazioni in senso stretto e tra quanti sono arrivati in età prescolare, la percezione di padroneggiare molto bene la lingua italiana è molto più diffusa, mentre tra chi è arrivato a 11 anni e più le quote diminuiscono di oltre 30 punti percentuali. Per tutte le attività le ragazze mettono in luce abilità migliori rispetto ai ragazzi. Inoltre tra quanti hanno risposto alla domanda “In che lingua pensi?”, oltre i tre quarti degli alunni di cittadinanza straniera dichiara di pensare in italiano.

Ragazzi stranieri e ragazzi italiani sono accomunati dal modo di guardare al futuro. Poco meno della metà ne è affascinato, con minime differenze tra italiani e stranieri. Non trascurabile, però, è la quota di quanti ne hanno paura, si tratta di circa un terzo dei ragazzi; anche in questo caso senza differenze significative tra italiani e stranieri. Anche le differenze di genere sono dello stesso segno: le ragazze più dei ragazzi sono, tanto tra gli italiani quanto tra gli stranieri, più spaventate dal futuro. Si tratta di un disagio da non sottovalutare, legato a un clima generale di forte incertezza che rende più difficile guardare al domani con ottimismo. Giovani italiani e stranieri condividono anche le preoccupazioni espresse, nonostante le compren- sibili differenze. Al centro dell’attenzione di ambedue è l’ambiente, che ne preoccupa la maggioranza. Tra gli stranieri, inoltre, uno su due si dice molto preoccupato per la fame e la povertà e poco meno per le guerre. Il passa- to di sofferenze dei loro genitori pesa evidentemente sulle differenze con i coetanei italiani.
Il comune sentire dei ragazzi italiani e stranieri si esprime anche nel sogno di vivere il proprio futuro in un paese diverso dall’Italia. Sono più i ragazzi stranieri a sottolinearlo, ma i paesi più desiderati sono gli stessi: Stati Uniti, Regno Unito, Germania. Sono le ragazze a voler vivere più spesso il proprio futuro all’estero.

 

I bisogni degli anziani con gravi problemi di autonomia
Le profonde trasformazioni demografiche e sociali in atto nel Paese investono anche la popolazione anziana, delineando nuove potenzialità nelle condizioni di salute e nella qualità della vita, ma anche nuovi bisogni. I resi- denti con 65 anni e più – convenzionalmente definiti “anziani” – sono oltre 14 milioni a inizio 2022, circa 3 milioni in più rispetto a venti anni fa; nel 2042 saranno quasi 19 milioni. I grandi anziani, con almeno 80 anni, superano i 4,5 milioni e la popolazione con almeno cento anni raggiunge le 20 mila unità, essendosi quadruplicata negli ultimi 20 anni; tra vent’anni avremo un aumento di quasi 2 milioni di persone con 80 anni o più, mentre gli almeno centenari triplicheranno.
Gli indicatori condivisi a livello europeo e internazionale che indagano sul livello di autonomia nello svolgere le attività essenziali della cura di sé nella vita quotidiana (ADL) e quelle della vita domestica (IADL) evidenziano l’elevata eterogeneità dei livelli di autonomia delle persone anziane. Tra i “gio- vani anziani” di età compresa tra 65-74 anni, sette su dieci sono completa- mente autonomi, mentre dopo gli 85 anni tale quota crolla al 13 per cento. In termini assoluti circa 6,4 milioni di persone non riescono a condurre una vita in piena autonomia, avendo moderate o gravi difficoltà nelle attività di cura personale o di cura della vita domestica. Ad avere una riduzione grave dell’autonomia sono 3,8 milioni. Si tratta in gran parte di donne, con un’età media di 82 anni. Il bisogno di assistenza viene espresso dal 70 per cento delle persone con moderate o gravi difficoltà, ma un terzo non si sente adeguatamente aiutato, con valori più elevati nelle regioni del Mezzogiorno. La famiglia conferma il ruolo chiave nel prestare assistenza, per lo più in maniera esclusiva, agli anziani con ridotta autonomia. Ma le trasformazioni familiari di cui si è detto, lasciano aperto il dubbio sul fatto che un sistema di reti familiari sempre più indebolito possa riuscire a far fronte a una domanda
12 di welfare che, stante la rapidità e l’intensità del processo di invecchiamento della popolazione, è da prevedere costantemente in crescita.

 

Le prospettive economiche incerte
La pandemia COVID-19 ha scatenato una crisi economica profonda ma circoscritta nel tempo. La ripresa dell’economia mondiale è iniziata già nella seconda metà del 2020, ed è proseguita fino all’inizio di quest’anno, seppure con intensità e cadenze differenti tra principali paesi e aree geo-economi- che. Il commercio mondiale di beni e servizi in volume è cresciuto lo scorso anno di oltre il 10 per cento e ha superato ampiamente i livelli del 2019, perdendo però dinamismo nei primi mesi del 2022.
Nelle maggiori aree geo-economiche, l’intonazione espansiva delle politiche economiche a supporto di consumi e investimenti ha continuato ad accompagnarsi a un marcato recupero del clima di fiducia delle famiglie e, soprattutto, delle imprese che nell’Unione Europea, nonostante le tensioni geopolitiche e l’accelerazione dell’inflazione, è rimasta su valori storicamente

elevati. La domanda estera netta ha fornito un apporto contenuto o addirittura negativo che però in quasi tutti i paesi ha mascherato un forte dinamismo sia delle esportazioni sia delle importazioni che si è compensato. La guerra scatenata alla fine di febbraio 2022 dall’aggressione della Russia all’Ucraina ha accentuato la volatilità sui mercati e innescato ulteriori rialzi dei prezzi delle materie prime energetiche e alimentari. Questi fattori negativi, assieme alla normalizzazione della politica monetaria annunciata (e in alcuni casi già avviata) in molti paesi, hanno determinato un brusco peggioramento delle prospettive di breve e medio termine dell’economia internazionale.

Il quadro macroeconomico dell’Italia, alla metà del 2022, resta caratterizzato da una situazione moderatamente positiva, nonostante l’incertezza e i rischi al ribasso associati allo scenario internazionale. In meno di due anni, tra la metà del 2020 e l’inizio di quest’anno, l’economia italiana ha recuperato per intero l’eccezionale caduta del Pil associata alla pandemia da COVID-19. Nel 2021, grazie a un forte dinamismo nella parte centrale dell’anno, l’economia è cresciuta, più della media dell’area euro, del 6,6 per cento, dopo aver subito nel 2020 una caduta maggiore. Analogamente al peggioramento del quadro internazionale, nella prima parte del 2022 la crescita si è molto affievolita nel nostro Paese come nel complesso dell’Unione Europea.
In Italia, nel primo trimestre del 2022 la crescita congiunturale del Pil si è quasi azzerata (+ 0,1 per cento) sostenuta dalla spesa per investimenti, che continua a mantenersi molto dinamica e dal lato dell’offerta dalle costruzioni, trainate dalle agevolazioni fiscali, e dal recupero delle attività professionali e dei servizi di supporto alle imprese. L’attività dell’industria e del commercio hanno invece segnato una battuta d’arresto, così come i consumi. Nono- stante questo rallentamento, al netto degli effetti di calendario la crescita acquisita per quest’anno è attualmente del 2,6 per cento, superiore rispetto a Francia e Germania (rispettivamente l’1,9 e l’1,3 per cento), anche se inferiore rispetto alla Spagna (3,4 per cento). Nonostante la decelerazione dell’attività economica, nel primo trimestre di quest’anno il Pil ha recuperato il livello del quarto trimestre 2019; quando l’attività economica nel nostro Paese era in leggera contrazione rispetto ai trimestri precedenti.

Per quanto riguarda la domanda estera netta, l’andamento del commercio con l’estero dal 2021 è stato positivo sia in volume sia, soprattutto, in valore, superando ampiamente i livelli pre-crisi. Tuttavia, dalla seconda parte dello scorso anno l’incremento dei prezzi delle materie prime e segnatamente dell’energia ha portato a un rapido deterioramento dei saldi commerciali divenuti negativi. In particolare, nei primi quattro mesi del 2022, rispetto allo stesso periodo del 2021, le esportazioni di beni sono cresciute del 20,7 per cento, mentre le importazioni sono aumentate di oltre il 40 per cento.
Dopo l’eccezionale crescita del deficit e del debito del 2020, che sommava gli effetti dello squilibrio di bilancio e della caduta del Pil, nel 2021 il quadro di finanza pubblica ha segnato un sostanziale miglioramento. Nonostante il disavanzo sia rimasto ancora al 7,2 per cento del Pil, il forte rimbalzo dell’attività ha consentito di ridurre il rapporto tra debito e Pil di 4,5 punti percentuali, al 150,8 per cento, con un calo più ampio di quello previsto nei

 

Documenti programmatici.

 

Il livello elevato di indebitamento rende l’Italia particolarmente vulnerabile ai rialzi dei tassi di interesse sui titoli di stato e alle turbolenze sui mercati finanziari internazionali, di cui già vi sono stati segnali nei mesi più recenti. Nonostante il sostegno della Banca centrale europea nel contenimento dei costi di emissione dei titoli e l’allungamento della vita media dello stock di debito, l’esposizione attuale suggerisce di evi- tare scostamenti di bilancio importanti rispetto al sentiero di rientro tracciato nei documenti di programmazione, anche se questa linea è resa più difficile dalla necessità di limitare gli effetti sui redditi e sui prezzi degli aumenti del costo dell’energia.

 

La fiammata inflazionistica
Gli aumenti delle quotazioni delle materie prime – in particolare quelle energetiche – iniziati nel corso del 2021 hanno determinato una spinta senza precedenti nei costi di produzione e una fiammata inflazionistica di intensi- tà pari a quella dei primi anni Ottanta. Le stime preliminari sull’inflazione di giugno sono di una crescita tendenziale dell’indice armonizzato dei prezzi al consumo pari all’8,5 per cento in Italia, e all’8,6 per cento per l’Uem.
L’invasione russa dell’Ucraina dello scorso febbraio ha provocato nuovi rialzi dei costi, aumentando anche l’incertezza geopolitica e quella sulla stabilità delle forniture energetiche. Questi elementi, i vincoli nelle catene globali di fornitura e la progressiva normalizzazione delle politiche economiche, estremamente espansive durante l’emergenza sanitaria, negli ultimi sei mesi hanno portato a rivedere più volte a ribasso le prospettive di crescita per quest’anno e il prossimo, per tutte le aree geo-economiche.
La forte accelerazione dell’inflazione è stata finora molto concentrata nei comparti più direttamente legati alla crescita dei prezzi delle materie prime, ma va progressivamente diffondendosi attraverso l’economia. A giugno, il tasso di inflazione acquisito per il 2022, misurato sull’indice per l’intera collettività (NIC), è pari al 6,4 per cento ed è verosimile che le spinte sui costi alimentino ulteriormente il processo, anche se le tensioni sulle quotazioni internazionali si dovessero allentare.
In particolare, i prezzi di petrolio e gas naturale, nei primi mesi del 2022, si sono attestati, rispettivamente, a 1,6 e 6,8 volte il livello medio del 2019. Anche quelli delle materie prime agricole hanno registrato una forte cresci- ta: il prezzo del grano è quasi raddoppiato rispetto al periodo precedente la pandemia, quello dei fertilizzanti è 3,1 volte superiore. Nello stesso periodo, rispetto alla media del 2019, il prezzo dell’energia elettrica è aumentato fino a oltre l’80 per cento, il gas di quasi il 54 per cento e i beni alimentari costano attualmente il 9 per cento in più.
L’Italia presenta un livello di dipendenza dalle forniture estere di prodotti energetici più elevato dei principali partner europei, pari a circa i tre quarti del fabbisogno. Anche il comparto agro-alimentare, che da solo rappresenta circa il 10 per cento dell’export, dipende per più di un quinto da input produttivi di origine estera. In questo contesto, il marcato rialzo delle quotazioni delle materie prime energetiche e agricole ha generato un aumento dei prezzi di produzione che dai settori direttamente colpiti si è trasmesso al resto del sistema produttivo, trasferendosi infine sull’inflazione al consumo.

Oltre che sulla dinamica dei prezzi delle materie prime, le tensioni geopolitiche stanno influendo anche sulla stabilità delle catene di fornitura di pro- dotti energetici e agricoli. Di conseguenza, non è possibile escludere che uno shock di offerta possa sommarsi a quello sui prezzi, incrementando il pericolo di un’interruzione della ripresa.
L’impatto degli shock su prezzi e forniture di materie prime energetiche e agricole, per le caratteristiche dei settori, rilevanti nelle fasi più a monte delle filiere, genera effetti di trasmissione estesi, che colpiscono in maniera più diretta circa un terzo del sistema produttivo in termini di valore aggiunto. Complessivamente, in conseguenza dello shock sulle quotazioni delle materie prime energetiche e agricole, i prezzi alla produzione salirebbero dell’8,4 per cento, mentre la riduzione del 10 per cento delle forniture degli stessi prodotti produrrebbe una riduzione del valore aggiunto pari al -1,2 per cento. In particolare, gli shock avrebbero un effetto significativo su comparti rilevanti sia per il loro impatto sui prezzi e gli approvvigionamenti di beni e servizi di largo consumo, sia per le esportazioni, quali energia, alimentari e bevande, trasporti, alberghi e ristoranti, i prodotti del tessile-abbigliamento e quelli della lavorazione dei minerali non metalliferi. Nel 2021, l’indice dei prezzi al consumo ha superato di oltre un punto percentuale le retribuzioni contrattuali erodendo i guadagni di entità analoga realizzati nel 2020. L’attività negoziale è andata intensificandosi nell’ultimo anno. Ciononostante, anche nei primi mesi del 2022 le retribuzioni hanno continuato a crescere in misura molto moderata, anche se dovrebbero riprendere vivacità nella seconda parte dell’anno, alla luce dei rinnovi in corso, per i quali il riferimento è ora la previsione del tasso di crescita dell’indice dei prezzi al consumo al netto dei prodotti energetici IPCA-NEI, stimata a inizio giugno dall’Istat al +4,7 per cento per il 2022. In assenza di ulteriori variazioni al rialzo o al ri- basso, la crescita dei prezzi per il 2022 sarebbe del +6,4 per cento; sul lato retributivo, in mancanza di rinnovi o di meccanismi di adeguamento, ciò comporterebbe un’importante diminuzione delle retribuzioni contrattuali in termini reali, che a fine 2022 tornerebbero al di sotto dei valori del 2009.

 

Impatto differenziato sui settori produttivi
La ripresa non è stata uniforme tra i settori produttivi. Nell’Industria – e in particolare nelle costruzioni, trainate dagli incentivi fiscali – l’attività è ampia- mente sopra i livelli precedenti la crisi, ed è risultata molto dinamica anche in comparazione con le altre maggiori economie europee. Nei servizi, invece, la situazione è fortemente diversificata, in ragione dell’impatto delle misure di contenimento dei rischi di contagio che, fino a pochi mesi fa, hanno limitato alcune attività. In particolare, nell’aggregato dei servizi ricreativi e alla persona, in termini reali il livello del valore aggiunto nel primo trimestre del 2022 era ancora inferiore di oltre 10 punti percentuali rispetto alla fine del 2019.

Un quadro complessivamente positivo offrono le indicazioni qualitative più recenti. Nell’industria, nel commercio, nella logistica, nei servizi ICT e in quelli turistici la fiducia delle imprese e le attese sugli ordini si mantengono su livelli molto elevati, mentre nell’aggregato dei servizi alle imprese e degli altri servizi l’indice di fiducia ha avuto un andamento incerto nei primi mesi dell’anno, segnando una netta risalita solo a giugno.
Particolarmente critica la situazione dell’agricoltura, il cui valore aggiunto è sceso sia nel 2020 che nel 2021. L’agricoltura italiana è in trasformazione. In 38 anni, sono scomparse 2 aziende su 3 del settore, e nello stesso tempo la loro dimensione media è più che raddoppiata.

Agli effetti negativi sul comparto, dovuti agli strascichi della crisi sanitaria e allo shock bellico, nel 2022 si è aggiunta l’emergenza climatica. Quest’anno è infatti caratterizzato da una siccità che, per portata, già si qualifica come il terzo evento grave nell’arco di un decennio. Si deve inoltre sottolineare che dal dopoguerra agli anni Ottanta del secolo scorso non si erano mai verificati fenomeni analoghi. Anche se i comportamenti individuali e collettivi possono mitigare i cambiamenti climatici in atto, nei prossimi anni ci si deve attendere il ripetersi di eventi simili, con conseguenze avverse in particolare per l’agricoltura e per la disponibilità di acqua potabile. La carenza di risorse idriche sta colpendo in maniera particolare le regioni settentrionali nel baci- no del Po anche a causa delle perdite degli acquedotti che nei capoluoghi di provincia è pari al 36,2 per cento dell’acqua immessa in rete. Il PNRR ha destinato 4,38 miliardi per garantire la gestione sostenibile del ciclo delle risorse idriche evitando sprechi e per il miglioramento della qualità ambientale delle acque marine e interne. Un investimento fondamentale per avviare gli interventi più urgenti. Il fatto tuttavia che l’agricoltura assorba circa la metà degli utilizzi delle risorse idriche del Paese rende però necessario strutturare un piano più ampio di azione.

 

La ripresa dell’occupazione
L’Italia si posiziona tra i paesi Ue dove più marcata è stata la riduzione degli occupati tra il 2019 e il 2020, con l’ulteriore aumento del divario del nostro Paese rispetto alla media Ue su tutti i principali indicatori del mercato del lavoro.
Dopo i primi mesi del 2021 la situazione è progressivamente migliorata. La crescita dell’occupazione, anche se meno ampia rispetto alle altre maggiori economie europee, ha permesso di recuperare quasi pienamente, in termini di numero di occupati, i livelli pre-crisi. Il tasso di occupazione, a marzo 2022 ha segnato il valore più elevato da quando è disponibile la serie storica (gennaio 2004). Nei mesi successivi, in concomitanza con la lieve riduzione della dinamica occupazionale, il tasso di occupazione resta comunque prossimo ai valori record registrati nei mesi precedenti. Il recupero ha riguardato tutte le categorie di occupati, anche se è stato guidato dall’occupazione dipendente a tempo determinato, che era stata colpita più intensamente nella fase recessiva associata alla pandemia. Parallelamente sono diminuite la disoccupazione e l’inattività, con il ritorno della quota degli attivi, dallo scorso marzo, ai livelli pre-pandemia.

Una delle caratteristiche peculiari dell’impatto della pandemia sul merca- to del lavoro italiano nel 2020 è stato il costo particolarmente alto pagato dall’occupazione femminile: un fenomeno che non sembra aver trovato riscontro negli altri principali paesi dell’Ue, come Francia e Germania.

I giovani sono stati particolarmente colpiti dagli effetti recessivi dell’emergenza sanitaria, soprattutto a causa della maggiore vulnerabilità dei tipi di lavori più precari svolti. Tale fenomeno, osservato in molti paesi europei, ha determinato nella media Ue un calo degli occupati con meno di 25 anni quasi tre volte superiore a quello registrato per i 25-54enni, con l’Italia e la Spagna che si sono distinti per le perdite più marcate. I notevoli progressi osservati nel 2021 e nei primi mesi del 2022 hanno però consentito all’Italia il recupero e il superamento dei livelli occupazionali pre-pandemici anche per i giovani da 25 a 34 anni.

L’occupazione per titolo di studio conferma, anche per il biennio pandemico 2020-2021, il ruolo protettivo usualmente giocato dall’accumulazione del capitale umano nel ridurre i rischi di perdita del lavoro e nell’agevolare la ricerca di un lavoro nelle successive fasi di ripresa. Ciò vale in modo parti- colare nel nostro Paese dove, nel 2020, il tasso di occupazione dei laureati si è ridotto meno della metà rispetto ai possessori di un diploma secondario superiore. I benefici occupazionali di un titolo di studio più elevato appaiono particolarmente forti per le donne, per le quali nel 2021 essere in possesso di una laurea si è associato a un tasso di occupazione di oltre 20 punti percentuali (10 punti per gli uomini) superiore rispetto a chi non è andato oltre il diploma secondario superiore.

La ripresa dell’occupazione ha coinvolto di più i giovani che erano stati particolarmente colpiti. È stata più rapida per le donne che avevano perso di più e nel Mezzogiorno, dove il tasso di occupazione, seppure molto basso, è tornato, per la prima volta dal 2007, al di sopra del 46 per cento.
Va comunque messo in luce come il mercato del lavoro in Italia continui ad essere profondamente disuguale, i giovani da 25 a 34 anni non hanno ancora recuperato il tasso di occupazione del 2007, le donne nella metà dei casi non lavorano e sono ancora in fondo alla graduatoria europea, il Mezzogiorno mantiene una distanza elevata nei tassi di occupazione rispetto al Nord.

 

Disuguaglianze nelle forme lavorative
Il lavoro tradizionalmente definito come standard, cioè quello individuato nei dipendenti a tempo indeterminato e negli autonomi con dipendenti, entrambi con orario a tempo pieno, è in diminuzione. Nel 2021, queste modalità di lavoro riguardano 6 occupati su 10. Diminuisce il lavoro indipendente, che rappresenta un quinto degli occupati, per effetto del calo degli imprenditori, dei lavoratori in proprio (agricoltori, artigiani, commercianti), dei coadiuvanti e dei collaboratori. Aumenta il lavoro dipendente a tempo determinato soprattutto con contratti di breve durata. Quasi la metà dei dipendenti a termine ha un’occupazione di durata pari o inferiore ai 6 mesi. Negli anni è aumentata anche l’occupazione part-time, che nel 2021 riguarda quasi un quinto degli occupati e nella maggioranza dei casi è involontario. Ed è pro- prio questa la forma di part-time che ha mostrato la crescita più consistente.
Quasi 5 milioni di occupati, un quinto del totale, nel 2021, sono non-standard, cioè a tempo determinato, collaboratori o in part-time involontario. Tra questi, più di 800 mila sono sia a tempo determinato, sia in part-time involontario, cumulando le due criticità. Si tratta, soprattutto, di giovani fino a 34 anni, stranieri, donne, lavoratori con basso livello di istruzione e residenti nel Mezzogiorno. Una marcata concentrazione di lavoratori non-standard si osserva nel settore degli alloggi e ristorazione e nell’agricoltura, in quello dei servizi alle famiglie, dei servizi collettivi e alle persone e dell’istruzione. Tali lavoratori fanno parte dei membri di 4 milioni e 300 mila famiglie e, in 1 milione e 900 mila di esse, il lavoratore non-standard rappresenta l’unico occupato.

La crescita del lavoro non-standard si lega anche alla progressiva diffusione di modalità ibride di lavoro. Tra queste si rintracciano gli “autonomi dipendenti”, vale a dire gli occupati che, pur essendo formalmente autonomi, sono vincolati da rapporti di subordinazione con un’altra unità economica che ne limita l’accesso al mercato o l’autonomia organizzativa. Sono quasi 500 mila: nel 35 per cento dei casi sono lavoratori non-standard.

Tipologie contrattuali caratterizzate da un’importante componente non-standard sono anche quelle del lavoro somministrato e intermittente; le prime, tra il 2012 e il 2021 sono più che raddoppiate – attestandosi sulle 390 mila unità (in media mensile) – mentre le seconde, nel 2021, si attestano a 214 mila, con un’intensità lavorativa media di 11 giornate al mese. Infine vanno segnalati i lavoratori tramite piattaforma digitale, stimati in circa 50 mila individui, per i quali la questione più discussa riguarda la mancanza di tutele, soprattutto quando la piattaforma gestisce lavoratori formalmente autonomi, ma ne determina l’organizzazione e le condizioni di lavoro, anche in termini di orario.
Disuguaglianze retributive

La diffusione di forme di lavoro non-standard ha contribuito a un peggioramento della qualità complessiva dell’occupazione, comportando anche livelli retributivi mediamente più bassi. Il combinarsi di bassa retribuzione oraria e di contratti di lavoro di breve durata e intensità si traduce in livelli retributivi annuali decisamente ridotti. Circa 4 milioni di dipendenti del settore privato (con l’esclusione dei setto- ri dell’agricoltura e del lavoro domestico) sono a bassa retribuzione, cioè percepiscono una retribuzione teorica lorda annua inferiore a 12 mila euro. Circa 1,3 milioni di dipendenti riceve una bassa retribuzione oraria, inferiore a 8,41 euro. Per 1 milione di dipendenti i due elementi di vulnerabilità si sommano.

Quasi un terzo dei dipendenti è dunque a bassa retribuzione (oraria o annuale), con una quota maggioritaria di chi, per effetto di una ridotta intensità o continuità di lavoro, non riesce ad avere adeguate retribuzioni annue, pur percependo retribuzioni orarie superiori a 8,41 euro l’ora. Anche la bassa retribuzione oraria, così come l’occupazione non-standard, è più diffusa tra giovani, donne, stranieri (in particolare se extra-Ue), con basso titolo di studio e residenti nel Mezzogiorno. Se in molti casi si tratta di giovani che vivono ancora nella famiglia di origine, non è infrequente il fatto che siano genitori soli o in coppia. Si tratta più spesso di occupati nel settore degli altri servizi (come, ad esempio, organizzazioni associative, attività di servizi per la persona, riparazione di beni per uso personale e per la casa), in quelli di supporto alle imprese e di intrattenimento, alloggio e ristorazione, istruzione privata. Nella determinazione del divario intervengono differenziali di età, effetti legati ai livelli di istruzione e alle progressioni di carriera, effetti di settore e comunque legati alla posizione degli individui nel ciclo della loro vita lavorativa. Gli individui a bassa retribuzione sono occupati in prevalenza in imprese caratterizzate da condizioni retributive più svantaggiose, dove basse retribuzioni orarie si combinano con contratti a tempo determinato o part-time. Si tratta di 700 mila imprese per circa il 27 per cento delle posizioni. Ci sono poi 420 mila imprese che raccolgono quasi un terzo delle posizioni, caratterizzate dalla coesistenza di posizioni standard, nel complesso prevalenti, e posizioni a tempo parziale o a termine.
Le imprese che assicurano le condizioni retributive migliori sono anche quelle dove prevalgono nettamente le posizioni lavorative a tempo pieno e indeterminato: si tratta di un numero, nel complesso, esiguo (meno di 60 mila), sebbene di dimensioni elevate tanto da rappresentare circa un sesto delle posizioni. Le retribuzioni orarie superano in media i 15 euro e man mano che ci si allontana da questi livelli retributivi, la bassa retribuzione ora- ria si associa al ricorso a rapporti di lavoro a tempo parziale e determinato.

 

L’elevato livello di povertà assoluta
Le modalità di partecipazione o non partecipazione al mercato del lavoro sono tra le determinanti più significative della condizione di povertà, declinandosi, a seconda delle fasi del ciclo di vita, in modo diverso. In un reddito da lavoro insufficiente, perché associato a occupazioni precarie e con bassi profili professionali; in una mancata o saltuaria partecipazione al mercato del lavoro, che impedisce, ai più giovani, di avviare una vita autonoma e che impone il ricorso a sussidi di varia natura o al mantenimento da parte di persone esterne al nucleo familiare; in una pensione esigua, dovuta all’assenza di un’attività lavorativa pregressa o frutto di storie lavorative discontinue in settori mal pagati e spesso caratterizzati da elevata incidenza di lavoro irregolare.

La povertà assoluta, nell’ultimo decennio, è progressivamente aumentata e, nel biennio 2020-2021, ha raggiunto i valori più elevati dal 2005, coinvolgendo oltre cinque milioni e mezzo di persone. Anche la connotazione delle famiglie in povertà assoluta è progressivamente cambiata. L’incidenza è diminuita tra gli anziani soli, è rimasta sostanzialmente stabile tra le coppie di anziani ed è fortemente cresciuta tra le coppie con figli, tra i nuclei mono- genitori e tra le famiglie di altra tipologia.
Il fenomeno ha inoltre progressivamente coinvolto sempre più famiglie di occupati, sebbene la diffusione della povertà sia tra le più elevate quando la persona di riferimento è in cerca di lavoro. Si conferma e si amplia nel tempo la stratificazione della povertà per area geografica, età e cittadinanza: nel 2021 è in condizione di povertà assoluta un italiano su venti nel Centro-nord, più di un italiano su dieci nel Mezzogiorno e uno straniero su tre nel Centro-nord, il 40 per cento nel Mezzogiorno. È molto aumentata la povertà dei minori e dei giovani.
Le misure di sostegno economico erogate nel 2020, in particolare reddito di cittadinanza e di emergenza, hanno permesso a 1 milione di individui di non trovarsi in condizione di povertà assoluta. L’effetto è stato maggiore per il Mezzogiorno, per le famiglie con a capo un disoccupato, per le famiglie di stranieri, per le coppie con figli e i nuclei monogenitore. Quelle stesse mi- sure hanno garantito la diminuzione dell’intensità della povertà di una parte di coloro che sono rimasti in povertà. In assenza di sussidi l’intensità della povertà sarebbe stata di ben 10 punti percentuali più elevata. L’effetto più rilevante si osserva per le famiglie con persona di riferimento in cerca di occupazione, tra le quali l’incidenza, in assenza di sussidi, avrebbe superato il 30 per cento (ben 11,1 punti percentuali superiore a quella stimata in presenza di sussidi).

L’accelerazione inflazionistica che ha caratterizzato la seconda metà del 2021 e i primi cinque mesi del 2022 rischia di aumentare le disuguaglianze, sia per la diminuzione del potere d’acquisto, particolarmente marcata pro- prio tra le famiglie con forti vincoli di bilancio, sia per effetto delle tempisti- che dei rinnovi contrattuali, più lunghe in settori caratterizzati da bassi livelli retributivi.

A marzo, la variazione tendenziale dei prezzi per le famiglie con forti vincoli di bilancio è risultata pari al 9,4 per cento, 2,6 punti percentuali più elevata dell’inflazione misurata nello stesso mese per la popolazione nel suo com- plesso. Inoltre, l’aumento dei prezzi che ha colpito queste famiglie riguarda beni e servizi essenziali, il cui consumo difficilmente può essere ridotto; oltre agli alimentari, infatti, anche la spesa per energia di tali famiglie riguarda essenzialmente i beni energetici per uso domestico (energia elettrica, gas per cucinare e riscaldamento).
Istat | Rapporto annuale 2022

 

Le disuguaglianze indotte dalla DAD
Se l’investimento in istruzione e formazione di qualità è riconosciuto essere la leva più efficace per ridurre le disuguaglianze e costruire società eque, un segnale di allarme proviene dall’evidenza che i più giovani, complice l’effetto della pandemia, hanno visto diminuire le proprie competenze e limitare le attività legate allo sviluppo relazionale. Le prove Invalsi condotte nell’anno scolastico 2020/2021 evidenziano una perdita generalizzata degli apprendimenti di italiano e matematica, che diventa più evidente al crescere del grado di istruzione. Tra gli studenti di scuola secondaria di secondo grado, i livelli di competenza raggiunti nel 2021 per l’italiano sono inadeguati in 44 casi su 100 e per la matematica in 51 casi su 100, quote entrambe in au- mento di 9 punti rispetto al 2019. La situazione è particolarmente grave per il Mezzogiorno, soprattutto in Calabria e Campania, e per la popolazione di cittadinanza straniera.

Il ricorso obbligato alla didattica a distanza e a quella integrata ha com- portato difficoltà sia per le scuole che per gli studenti e ha generato ulteriori differenze tra territori e ordini scolastici. In base a quanto riportato dai dirigenti scolastici, solo poco più del 60 per cento delle scuole secondarie disponeva di un ambiente virtuale/piattaforma per la condivisione dei materiali didattici già prima della pandemia. Anche laddove c’era, in 4 casi su 10 lo utilizzava unicamente una parte dei docenti. È positivo il fatto che quasi il 90 per cento degli istituti privi di tali ambienti/ piattaforme sia comunque riuscito ad attivarli nel periodo marzo-giugno 2020 e un ulteriore 10 per cento lo abbia fatto durante l’anno scolastico 2020/2021, seppur con molte difficoltà. Queste ultime legate soprattutto all’inadeguatezza della connessione Internet della scuola, alla mancanza di spazi adatti a garantire il distanziamento ma anche di arredi e di strumenti informatici adeguati, all’insufficiente aereazione delle aule o all’igienizzazione e disinfezione dei locali.

Solo otto ragazzi su dieci delle scuole secondarie ha potuto seguire le lezioni con continuità fin dall’inizio; tra marzo e giugno 2020 più di 700 mila ragazzi hanno partecipato alla didattica solo saltuariamente e 156 mila non hanno ricevuto formazione, con inevitabili conseguenze negative sui livelli di apprendimento che rischiano di poter durare nel tempo. Va però preso atto che nell’anno scolastico 2021/22 solo l’1 per cento degli studenti non è riuscito a prendere parte alle lezioni online, senza significative differenze tra gli ordini scolastici e sul territorio, a fronte dell’8 per cento nel periodo marzo-giugno 2020. A questo risultato ha contribuito l’impegno delle scuole per dotare di dispositivi informatici gli studenti che ne erano privi.
Anche in ambito scolastico i ragazzi con disabilità hanno dovuto affrontare ostacoli maggiori a seguito dell’emergenza sanitaria: la quota degli esclusi, pari un quarto nell’anno scolastico 2019/2020 (a fronte dell’8 per cento sul complesso degli studenti), nell’anno scolastico successivo è scesa a un ben più modesto 2 per cento, seppur doppio rispetto al valore riferito al com- plesso degli studenti. Quasi 7 mila ragazzi con disabilità sono stati esclusi dalle lezioni online per la gravità della patologia, il disagio socio-economico, la difficoltà organizzativa della famiglia, la mancanza di strumenti tecnologici adeguati.

Nonostante le scuole, al pari e con altre strutture pubbliche e del privato sociale, abbiano cercato di sostenere i ragazzi più svantaggiati, mettendo a disposizione pc e tablet, le difficoltà si sono concentrate tra i residenti nel Mezzogiorno, tra gli stranieri e in contesti socio-economici particolarmente difficili.
Va tuttavia sottolineato che l’Italia grazie anche alle misure messe in atto in questi ultimi due anni per affrontare l’emergenza sanitaria – incluso il “voucher connettività” introdotto nel 2020 a sostegno delle famiglie meno abbienti – ha mostrato un deciso aumento di diffusione e frequenza dell’u- so di Internet nei diversi ambiti della vita quotidiana, riducendo le distanze con il resto dell’Europa.

 

Disuguaglianze nel mondo delle imprese
La crisi sanitaria e la successiva fase di ripresa economica hanno avuto un impatto differenziato non solo sui lavoratori ma anche sulle imprese. Con riferimento a queste ultime, nonostante un quadro complessivo di relativa solidità, emergono andamenti eterogenei all’interno del sistema. Le maggiori difficoltà nel processo di recupero sono state sperimentate dalle imprese di piccole dimensioni e nei settori dei servizi maggiormente colpiti dalle misure di contenimento associate alla pandemia, come le attività del turismo e della ristorazione, o l’aggregato dei servizi ricreativi e alla persona. Al contrario, le imprese medie e grandi e quelle attive in settori quali l’industria e i servizi ICT hanno risentito meno della crisi e beneficiato in misura maggiore degli stimoli per la ripresa.

I dati di tipo microeconomico corroborano questa differenziazione. In aggregato, se a novembre del 2020 quasi un terzo delle imprese considerava la propria attività “a serio rischio operativo” (riteneva cioè probabile la chiusura dell’attività nell’arco di un semestre), già un anno dopo tale quota si era ridotta al 3,4 per cento. L’incidenza resta assai più elevata per le attività maggior- mente colpite dalle conseguenze della pandemia: a fine 2021 dichiarava di essere a rischio più di un’impresa su dieci nell’aggregato dei servizi ricreativi (es. cinema, teatri, discoteche, circoli sportivi) e, se si considera una definizione più ampia inclusiva di chi si ritiene almeno “parzialmente” in pericolo, erano a rischio circa un’impresa su tre in questo comparto e in quello degli alloggi e ristorazione.

Inoltre, nonostante le misure di sostegno pubblico abbiano mitigato gli effetti della fase più acuta di contrazione dell’attività, a novembre 2021 quasi un terzo delle imprese tra i 3 e i 9 addetti ha dichiarato che nella prima parte del 2022 la propria capacità produttiva sarebbe risultata inferiore rispetto a quella del 2019, e solo il 6,5 per cento ha detto che sarebbe stata superiore. All’opposto, nello stesso periodo, tra le imprese medie e grandi (cioè le unità con 50 addetti e più) meno del 15 per cento prevedeva di perdere capacità produttiva, e oltre il 22 per cento pensava di accrescerla.

Nel complesso, la fiducia delle imprese, a partire dallo scorso anno e fino alla prima parte del 2022, ha continuato a crescere, raggiungendo livelli storicamente elevati. Anche in questo caso si rileva una certa eterogeneità nel quadro settoriale. Nell’industria, nel commercio, nella logistica, nei servizi ICT e in quelli turistici la fiducia delle imprese e le attese sugli ordini si man- tengono su livelli molto elevati, suggerendo che l’espansione in questi settori proseguirà, mentre nell’aggregato dei servizi alle imprese e degli altri servizi l’indice di fiducia ha avuto un andamento variabile nei primi mesi dell’anno, segnando una netta risalita solo a giugno, con prospettive più incerte.
Una peculiarità di quest’episodio recessivo, per le circostanze legate alla pandemia, è stata il forte stimolo alla diffusione delle tecnologie digitali e all’investimento in capitale umano, che ha portato il sistema delle imprese a recuperare alcuni ritardi strutturali e a sperimentare nuovi modelli organizzativi.

Anche in questo caso, tuttavia, non si tratta di un fenomeno universale. Le analisi condotte nel Rapporto rivelano che circa il 60 per cento delle imprese (rappresentative però di quasi l’80 per cento degli addetti e dell’85 per cento del valore aggiunto) ha mostrato – in grado diverso – capacità di adattarsi velocemente ai cambiamenti e coglierne le opportunità, con risultati favore- voli sullo sviluppo della capacità produttiva e la solidità. I fattori strutturali, legati in primo luogo alla dimensione aziendale e al settore d’attività, hanno ovviamente influito su questo aspetto, ma non sono gli unici elementi. Al riguardo, i dati mostrano come la probabilità di affrontare le criticità imposte dalla pandemia con successo siano state significativamente maggiori per le imprese che risultavano più dinamiche già prima della crisi, e che mostrava- no altri elementi strutturali favorevoli – oltre quelli appena citati – quali il livello di istruzione di imprenditori e dipendenti. Le evidenze riportate nel Rapporto sottolineano come questi elementi siano stati rilevanti soprattutto per le imprese di dimensione più piccola e, tra queste, in particolare, per quelle guida- te da donne, da giovani e da stranieri, che più delle altre sono rappresentate nei settori maggiormente esposti alla crisi.

 

La sfida della PA
La crisi sanitaria ha fatto emergere criticità del sistema paese presenti da tempo e ha reso necessario velocizzare alcuni processi quali la transizione green, ma anche la modernizzazione della Pubblica Amministrazione italiana: obiettivo importante e particolarmente sfidante del PNRR.
Si prevede un complesso sistema di interventi orientati a una maggiore digitalizzazione della PA, a sviluppare percorsi di semplificazione e una profonda innovazione dei processi organizzativi e delle politiche relative al pubblico impiego, finalizzate a migliorare, attraverso nuove assunzioni e iniziative di formazione del capitale umano.

Il piano di riforma serrato messo in atto dal Governo sul fronte dell’acquisizione e della formazione delle risorse umane rappresenta un potenziale di sviluppo importante. Una PA moderna e che sappia rispondere alle esigenze dei cittadini e degli operatori economici crea le condizioni per lo sviluppo anche della produttività del Paese. La riforma si innesta in un quadro che presenta numerosi ostacoli, primo tra tutti il numero e le caratteristiche socio-demografiche dei dipendenti pubblici. Infatti, a seguito delle politiche di blocco delle assunzioni e delle riforme pensionistiche, l’occupazione nel settore pubblico, oltre che ridursi di circa 200 mila unità negli ultimi vent’anni, ha sperimentato anche un sensibile invecchiamento. Al 2019, tra i paesi Ue per i quali sono disponibili informazioni comparabili, l’Italia risultava avere l’incidenza più bassa di dipendenti pubblici rispetto alla popolazione (5,6 per cento abitanti, rispetto ai 5,8 della Germania) e, al contempo, essere tra quelli che avevano maggiormente ridotto la consistenza del personale in servizio nella Pubblica Amministrazione. Inoltre, nel settore pubblico italiano si riscontrava la maggiore incidenza di lavoratori con oltre 55 anni e la più bassa di quelli con meno di 35 anni. L’età media si è infatti incrementata di oltre 6 anni nell’ultimo decen- nio, attestandosi a 49,9 anni contro i 42,4 del settore privato. Un personale fortemente invecchiato ha meno motivazione a lanciare nuove e grandi sfide anche se è fonte di grande esperienza e conoscenza per comprendere come modificare al meglio i meccanismi organizzativi e l’avvicinamento agli utenti. Il livello generale del capitale umano del pubblico impiego è relativamente elevato, seppure con un forte grado di eterogeneità tra i diversi comparti. Il 42,5 per cento dei dipendenti pubblici ha un titolo di studio universitario, mostrando un differenziale importante rispetto al settore privato, dove l’incidenza si ferma al 18 per cento. Tuttavia, l’attrattività salariale del pubblico impiego, in particolare per il personale qualificato, potrebbe in alcuni casi rappresentare un elemento di freno per il piano di assunzioni di personale con competenze di alto livello, previsto dalla modernizzazione.

In questo contesto, il Piano strategico per la valorizzazione e lo sviluppo del capitale umano nella Pubblica Amministrazione prevede nel prossimo quinquennio consistenti investimenti per l’accrescimento delle competenze manageriali, organizzative e digitali dei dipendenti pubblici. I risultati preliminari del Censimento permanente delle Istituzioni pubbliche riferito al 2020 evidenziano, anche nell’ambito formativo, una forte eterogeneità tra amministrazioni associata alle loro caratteristiche dimensionali.
Sul piano dei contenuti, l’offerta formativa si è concentrata nelle aree tematiche giuridico-normativa e tecnico-specialistica. Va, invece, segnalato che, nonostante la carenza di competenze informatiche sia avvertita come l’osta- colo alla digitalizzazione, la formazione in questo campo ha riguardato solo il 5,3 per cento delle attività e il 6,6 per cento dei partecipanti. Più in generale, e con riferimento al periodo 2017-2020, le attività di formazione sono diminuite del 20 per cento e i partecipanti dell’8,8 per cento, mentre le ore sono cresciute del 14,5 per cento. La diminuzione ha risentito degli effetti dell’emergenza, che ha comportato la caduta delle attività in presenza e, in particolare, il crollo dell’attività formativa nelle aziende sanitarie.

La pandemia ha rappresentato un importante fattore di accelerazione del pro- cesso di digitalizzazione, soprattutto per la fornitura di servizi di e-government e per la diffusione del lavoro agile, con velocità e intensità eterogenee tra i diversi comparti del settore pubblico, con differenze anche di 40 punti percentuali nell’utilizzo di tecnologie, quali il cloud, o nella sicurezza informa- tica – oggi essenziale – tra le Università e le grandi amministrazioni, da un lato, e quelle più piccole, soprattutto territoriali, dall’altro. In questo contesto, sono percepiti tra i maggiori ostacoli alla digitalizzazione, oltre ai deficit di formazione e competenze, segnalati da oltre due terzi degli enti, anche la resistenza al cambiamento – principalmente per i grandi enti – e i vincoli sulle risorse finanziarie – per quelli di minori dimensioni.

L’accesso ai servizi digitali da parte dei cittadini ha sperimentato un vistoso incremento: le amministrazioni che hanno adottato lo SPID sono triplicate tra il 2019 e oggi, mentre le utenze individuali sono passate da 6 a 30 milioni tra il 2020 e il 2022. Al termine della fase emergenziale un’amministrazione pubblica su cinque considerava di introdurre in maniera strutturale il lavoro agile, circa sette su dieci tra quelle di maggiori dimensioni. I risultati sono incoraggianti, seppure permangano delle criticità. L’efficienza dei processi è stata generalmente salvaguardata e l’impatto sulla qualità del lavoro è risultata soddisfacente; molte amministrazioni, tuttavia, hanno evidenziato la necessità di nuove competenze digitali e di un miglioramento delle dotazioni tecnologiche.

Conclusioni
Lo scorso anno nel chiudere la presentazione del ventinovesimo Rapporto sottolineavo come l’Istat avesse dovuto confrontarsi con un compito arduo: disegnare il quadro di un paese scosso da un’emergenza imprevedibile che ha investito le vite, i rapporti sociali, l’economia, all’interno di uno scenario di crisi globale. Il Rapporto di quest’anno viene presentato in un contesto profondamente mutato per quanto riguarda la crisi pandemica, ma messo a dura prova da un evento drammatico, come è la guerra in Ucraina. La guerra, con tutte le sue conseguenze economiche e sociali, rischia infatti di indebolire il recupero economico del Paese e di accentuare al suo interno le disuguaglianze, già elevate.
I molti cambiamenti in atto nei comportamenti e nelle scelte collettive, ci dicono tuttavia che un aspetto cruciale per trasformare il superamento delle crisi in una vera e propria occasione di rilancio e di ricostruzione passa innanzitutto attraverso la riduzione delle disuguaglianze. L’alto livello di eterogeneità che si è sviluppato nel Paese, su molti fronti, impone di annoverare tra le priorità interventi rivolti alle imprese rimaste indietro in questo biennio per garantire la crescita dell’intero sistema produttivo, nonché interventi ri- volti ai più vulnerabili, e politiche adeguate per lo sviluppo dell’occupazione giovanile, femminile e nel Mezzogiorno. Se non cresce l’occupazione, in particolare femminile, aumenterà la povertà, e il Paese sarà condannato a una perdita del potenziale di produttività e di crescita aggiuntiva. Se non si fanno i conti con il problema dell’assistenza agli anziani e ai disabili si rischia un peggioramento grave delle loro condizioni e qualità della vita. Abbiamo consapevolezza che la rete familiare non riuscirà più a garantire un volume di ore di aiuto pari a quello passato. Perché aumenteranno le persone che hanno bisogno di aiuto e perché saranno sempre di meno le donne in grado di farsene carico con la stessa intensità del passato. Se non si affronteranno le disuguaglianze salariali e di tipologie di contratto del mercato del lavoro, continuerà a crescere la povertà anche tra gli occupati. Occorre ridare a quelle ragazze e a quei ragazzi spaventati dal futuro fiducia, e a quei giovani che immaginano il loro futuro altrove opportunità adeguate. Se non imboccheremo decisamente la strada della transizione ecologica per far fronte ai cambiamenti climatici, che tempestano anche il nostro Paese, nessun futuro sostenibile sarà possibile.

Il trentesimo Rapporto Annuale dell’Istat mostra un sistema paese caratterizzato da un elevato livello di complessità; una realtà che va affrontata con una strategia di risposta multidimensionale e a geometrie variabili. Affianca- ta da strumenti di valutazione e monitoraggio, efficienti ed efficaci.
La crescita delle disuguaglianze impone di costruire nuovi sistemi di misurazione che tengano conto delle specificità dei differenti soggetti sociali e delle forme del disagio che stanno emergendo. In questa direzione l’Istituto Nazionale di Statistica è in grado di svolgere il ruolo di catalizzatore, mettendo a disposizione conoscenze e alte professionalità per definire quadri informativi e analisi utili all’intero Paese.

Il PNRR ha lanciato grandi sfide: la transizione digitale, quella ecologica, il grande investimento in infrastrutture. A ciò va aggiunta l’imponente sfida della riforma e della modernizzazione della PA. Il Paese ha dimostrato di es- sere unito nei confronti della risposta alla pandemia. Lo è stato anche nella risposta all’impatto sociale ed economico della crisi. Ancor più dovremo esserlo ora. Ognuno ha fatto la sua parte. E così dovrà essere anche in futuro.
L’Istat farà la sua parte, impegnandosi a fornire statistiche affidabili e aggiornate sempre più al passo con il bisogno di conoscere per poter governare i grandi cambiamenti che ci attendono: sul fronte dell’economia, della società, della popolazione e dell’ambiente in cui essa è chiamata a vivere e a interagire.

 

 

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