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ISTAT * DIVERSITÀ LGBT+: « SVANTAGGIO NEL LAVORO PER IL 26% CHE SI DICHIARA OMOSESSUALE O BISESSUALE, IL 12,6% NON SI È PRESENTATO A UN COLLOQUIO »

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14.08 - martedì 17 maggio 2022

In occasione della giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia, l’Istat propone alcuni risultati delle indagini finora condotte nell’ambito del progetto, tuttora in corso, svolto in collaborazione con UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali), sul tema delle “Discriminazioni lavorative nei confronti delle persone LGBT+ e le diversity policies attuate presso le imprese”. Il progetto prevede indagini riferite a imprese, stakeholder e differenti gruppi di popolazione LGBT+.

L’indagine sul diversity management nelle imprese si è svolta a fine 2019 e i risultati sono stati pubblicati a novembre 2020. La prima delle tre rilevazioni indirizzate alle persone LGBT+ (dedicata alle persone in unione civile o già in unione) si è conclusa nel 2021 e i risultati sono stati diffusi a marzo di quest’anno; le altre due indagini, dedicate rispettivamente alle persone LGB che non sono in unione civile e non lo sono state in passato, e alle persone transgender, sono tuttora in corso di realizzazione.

 

SINTESI DEI PRINCIPALI RISULTATI

• Secondo i dati dell’“Indagine sulle discriminazioni lavorative nei confronti delle persone LGBT+ in unione civile o unite in passato” realizzata nel 2020-2021, il 26% delle persone che si dichiarano omosessuali o bisessuali afferma che il proprio orientamento sessuale ha rappresentato uno svantaggio nel corso della vita lavorativa in almeno uno dei tre ambiti considerati (retribuzione, avanzamenti di carriera, riconoscimento delle capacità professionali). Il 12,6% non si è presentato a un colloquio di lavoro o non ha fatto domanda poiché pensava che l’ambiente lavorativo sarebbe stato ostile al suo orientamento sessuale. Questi dati sono riferibili solamente a una piccola parte della popolazione LGBT+ (le persone in unione civile o già in unione), il segmento più propenso a vivere il proprio orientamento sessuale in una dimensione pubblica.

• Nel 2019, il 5,1% delle imprese con almeno 50 dipendenti dell’Industria e dei Servizi ha adottato almeno una misura, non obbligatoria per legge, volta a favorire l’inclusione dei lavoratori LGBT+. La quota sale al 14,6% tra le imprese con almeno 500 dipendenti. Le misure più diffuse sono quelle destinate ai lavoratori transgender, in particolare la presenza di servizi igienici, spogliatoi, ecc. che consentano un utilizzo coerente con la propria identità di genere (3,3% delle imprese). Poco diffusi gli eventi formativi sui temi legati alle diversità LGBT+ rivolti al top management (1,3%) e ai lavoratori (1,2%). Solo il 2,9% delle imprese non ancora attive sul versante LGBT+ afferma di voler implementare tali misure o strumenti nei tre anni successivi al 2019.

• Stakeholder e persone LGBT+ in unione civile o ex-unite, intervistate nell’ambito del progetto, ritengono fondamentale un cambiamento culturale. A tal fine sostengono siano necessarie attività di formazione sulle tematiche LGBT+ dedicate a differenti attori (datori di lavoro, operatori sanitari, insegnanti, dipendenti pubblici, ecc.), ma soprattutto iniziative più generali di educazione, informazione e sensibilizzazione da realizzarsi anche nelle scuole. Un ampio accordo viene espresso in favore di una legge nazionale contro l’omolesbobitransfobia, sui diritti per le famiglie LGBT+, tra cui il riconoscimento legale di entrambi i genitori per i figli di coppie omogenitoriali. Viene inoltre segnalata la carenza di leggi e iniziative a favore delle persone transgender, non binarie e intersessuali.

 

 

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