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GIOVANNI WIDMANN * IL MITO DI SISIFO: « ERMENEUTICA DEL RITORNO / L’UOMO COSCIENTE NON È QUELLO CHE CONFIDA NELLA PROPRIA AZIONE, MA QUELLO CHE -CONSAPEVOLE DELL’INEFFICACIA- PERSISTE NELLA LOTTA »

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15.30 - martedì 2 agosto 2022

Nel mito greco il titano Sisifo, colpevole di aver astutamente sfidato ed ingannato Zeus, viene punito per la sua tracotanza; dopo esser stato segregato nell’Ade, è condannato ad un’eterna quanto ardua e vana fatica: spingere in alto un macigno che inesorabilmente è destinato ogni volta a rotolare giù dalla cima, per cui Sisifo deve ridiscendere e ricominciare il supplizio.

«Sisifo guarda, allora, la pietra precipitare, in alcuni istanti, in quel mondo inferiore, da cui bisognerà farla risalire verso la sommità. Egli ridiscende al piano. È durante questo ritorno che Sisifo mi interessa. Un volto che patisce tanto vicino alla pietra, è già pietra esso stesso! Vedo quell’uomo ridiscendere con passo pesante, ma uguale, verso il tormento, del quale non conoscerà la fine. Quest’ora, che è come un respiro e che ricorre con la stessa sicurezza della sua sciagura, quest’ora è quella della coscienza. In ciascun istante, durante il quale egli lascia la cima e si immerge a poco a poco nelle spelonche degli dei, egli è superiore al proprio destino.

È più forte del suo macigno. Se questo mito è tragico, è perché il suo eroe è cosciente. In che consisterebbe, infatti, la pena, se, ad ogni passo, fosse sostenuto dalla speranza di riuscire? L’operaio d’oggi si affatica, ogni giorno della vita, dietro lo stesso lavoro e il suo destino non è tragico che nei rari momenti in cui egli diviene cosciente. Sisifo, proletario degli dei, impotente e ribelle, conosce tutta l’estensione della sua miserevole condizione: è a questa che pensa durante la discesa. La perspicacia, che doveva costituire il suo tormento, consuma, nello stesso istante, la sua vittoria. Non esiste destino che non possa essere superato dal disprezzo.» (A. Camus, Il mito di Sisifo, 1942)

Camus individua l’archetipo della condizione umana non nel mito di Prometeo, il titano che ruba il fuoco agli dei per darlo agli uomini, ma in quello di Sisifo. Anche nel mito di Prometeo la conquista della coscienza rappresenta un elemento di liberazione, ma in quanto fornisce agli uomini la ragione strumentale per operare nel mondo attraverso l’acquisizione consapevole delle tèchnai, in modo da poterlo plasmare secondo i propri fini emancipandosi dalla dipendenza divina. Nella versione eschilea del mito Prometeo ben esprime questo concetto: «Ma udite la miseria dei mortali/prima, indifesi e muti come infanti,/e a cui diedi il pensiero e la coscienza. (…)/Essi avevano occhi e non vedevano,/avevano orecchie e non udivano,/somigliavano a immagini di sogno,/perduravano un tempo lungo e vago/e confuso (…)/Operavano sempre e non sapevano (…)» (Eschilo, Prometeo incatenato).

Se gli uomini conoscessero il proprio destino perirebbero di indolenza. Essere ignari dei disegni del tempo permette di agire nel mondo, pensando di avere un futuro. È dunque l’incoscienza foriera di libertà? Nella rilettura che Camus fa del mito di Sisifo l’uomo cosciente non è quello che confida nella propria forza e capacità d’azione, di cui sa di poter disporre, ma quello che è consapevole della propria debolezza e inefficacia, eppure persiste nella quotidiana lotta col macigno. Non quando raggiunge la sommità ma quando torna giù a recuperarlo Sisifo guadagna la consapevolezza della sua condizione e con ciò è più forte del suo destino, che è quello di continuare a lottare e impegnarsi malgrado l’inevitabile scacco.

Ho sempre trovato filosoficamente molto acuta ed esistenzialmente molto profonda questa rilettura del mito tragico di Sisifo, riconoscendomi sotto molti aspetti. In fondo, la nostra vita non è un incessante impegno a dare un senso all’agire? Non è la nostra quotidiana fatica di vivere un arrancare mirando alla mèta, per poi comprendere che l’impresa, quantunque portata a termine, è stata inutile e vana e che dobbiamo nuovamente ricominciare? Certamente impegnandosi si conseguono risultati, talora lusinghieri e importanti; non voglio sostenere che tutto sia privo di senso e che ogni fine o motivo dell’azione sia uguale agli altri. Se pensassi questo non potrei continuare ad esempio ad insegnare.

Ha senso parlare di valori, di scelte, di prospettive e di direzione dell’agire. La tragedia del nostro tempo è la crisi della coscienza, non riconoscere il valore del pensiero dietro le parole, ignorare che non l’impotenza e la fragilità fanno danno agli uomini, ma l’incoscienza, e che anzi è proprio la considerazione dei limiti della nostra condizione errante che ci fa crescere e ci rende più umani, forse meno violenti. Perché «l’arte è troppo più debole del fato» (Eschilo, op. cit.). La nostra è una libertà limitata e condizionata. L’assurdo di cui parla Camus non è nella condizione in sé di Sisifo, ma nella coscienza di questa condizione, che è insensata coazione a ripetere.

Ciononostante, la coscienza della sua impotenza, della sua limitatezza, fa sì che Sisifo sia superiore al destino che gli è stato assegnato. La tragicità della vita emerge nella presa di coscienza, così come il più profondo e perdurante dolore. Anche l’impegno, anche la fortezza e la resistenza sono sempre lucidamente coscienti. Nessuno può essere ribelle e coraggioso inconsapevolmente. Come ha opportunamente rilevato Camus, fintanto che l’operaio non diventa cosciente della condizione alienante del lavoro che svolge quotidianamente, non si può dire che il suo sia un destino tragico; lo è quando ne diviene cosciente.

Ecco allora che un’ermeneutica del ritorno e del ricominciamento è fondamentale per dare senso all’esperienza e per fare di una connaturata debolezza una forza, quella della consapevole resistenza non a sopprimere l’assurdo ma ad affrontarlo guardandolo in faccia e riconoscendolo, rivelandolo, senza pensare di rimuoverlo o dissimularlo dietro rassicuranti quanto inutili illusioni. Colui che quotidianamente affronta il male e la nullità dell’esistenza con coraggio, pur tuttavia nella consapevolezza che col suo agire non potrà eliminarli, è grande perché salvaguarda la verità e dà prova di volere l’azione alla sterile rassegnazione. Nel momento in cui lo accetta, egli è padrone del proprio destino, che a quel punto diventa uno scopo, una volontaria destinazione, malgrado tutto. Con la sua ermeneutica del ritorno Camus ci insegna che non il conseguimento della meta, sempre incerto, provvisorio e precario, può dare un senso all’esistenza, ma piuttosto la ridiscesa verso l’abisso avendo realizzato una conquista che invero è fallimento.

Ritengo che in qualsiasi processo di elevazione, come nell’andare in montagna, raggiunto che sia il vertice, si dovrebbe riservare un’attenzione particolare alla fase della discesa e del ritorno, perché in quel tempo di raccoglimento, di rimemorazione e di rivisitazione c’è spazio per una più profonda coscienza del valore della fatica e della salita. Nel ritorno è racchiuso il senso più riposto dell’ascensione che lo precede, l’idea che la meta è solo metà del percorso e che in montagna come nella vita l’altezza più grande è raggiunta non con le gambe ma con lo spirito.

La vetta invero insiste e resiste come tensione e nostalgia del ritorno. È l’elevazione che permette la visione più estesa di sé ed è nel ritorno che Sisifo è veramente sé stesso, perché allora non torna al macigno da sconfitto ma da vittorioso: la sua è una sprezzante volontà di ripresa contro ogni speranza, una prova di forza nella debolezza e nella decadenza, è un’etica severa e disincantata del ricominciamento che non ammette scorciatoie, senza illusioni.

La verità è che nulla permane e resiste sulla china del tempo, nulla se non l’assurdo. Non il dolore fa l’inferno, ma l’insensato. Vi sono uomini che provano a sopportare l’inferno con piccole o grandi illusioni e finzioni, con una fede. Altri scelgono di continuare, di accettare l’inferno. Perché l’inferno non è una condanna, ma cosciente e lucida affermazione di libertà. L’inferno, proprio perché è qui, intorno a noi e dentro di noi, perché è presente adesso, ci obbliga a mobilitarci, ci chiama ad un atto di responsabilità.

Nell’inferno ognuno è chiamato a lottare per strappare un brandello di senso al nulla. Nell’impegno a salvaguardare qualcosa dal niente – un’idea, una possibilità, un incerto futuro – sta il motivo della ridiscesa verso l’abisso. Ognuno ha le sue ragioni per scegliere di tornare indietro, per scegliere l’azione alla rassegnazione, quantunque il senso stia proprio nell’impegno e non in un sempre precario conseguimento, ovvero nella volontà di ricominciare.

Vivere l’inferno è essere destinati alla ripetizione, ma nella ripetizione c’è spazio e tempo per dare originalità alla propria ineludibile tendenza alla declinazione esistenziale.

 

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Giovanni Widmann

Insegnante di filosofia e storia al liceo Russell di Cles (Tn)

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