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BANKITALIA * CONGRESSO ASSIOM FOREX – INTERVENTO GOVERNATORE VISCO: « DECISIVA LA RIPRESA DELL’ECONOMIA, TAGLIATO IL DEBITO PUBBLICO AL 150% » (PDF REPORT)

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16.21 - sabato 12 febbraio 2022

Congiuntura, inflazione e politica monetaria. Nel 2021 la ripresa dell’economia mondiale è stata superiore alle attese. Anche in Italia l’attività produttiva ha sorpreso positivamente, con un aumento del PIL del 6,5 per cento. Negli ultimi mesi la crescita è stata frenata dalla nuova ondata di contagi, ma dalla primavera, con il progressivo miglioramento del quadro sanitario, dovrebbe riacquistare vigore. A livello globale, secondo l’ultimo scenario pubblicato dal Fondo monetario internazionale, nel 2022 il prodotto si espanderebbe del 4,4 per cento, mezzo punto percentuale in meno di quanto previsto in ottobre. I rischi di breve termine sono prevalentemente al ribasso; oltre che dall’evoluzione della pandemia, essi derivano soprattutto dal persistere di tensioni geopolitiche e dagli effetti che ne possono conseguire sui costi delle materie prime, in special modo dell’energia, e sugli scambi di prodotti intermedi lungo le catene globali del valore. Secondo le nostre ultime stime, in Italia la crescita del prodotto si avvicinerebbe nella media di quest’anno al 4 per cento, per poi attenuarsi nei prossimi due.

Dalla seconda metà del 2021 in molti paesi si è altresì osservato un significativo, per la maggior parte inatteso, rialzo dell’inflazione. Dal lato dell’offerta e dei costi vi hanno contribuito soprattutto i marcati rincari dell’energia da fonti fossili, le strozzature nelle catene produttive, l’incremento dei costi dei trasporti internazionali; negli Stati Uniti vi hanno concorso la forte crescita della domanda e l’aumento dei salari, connesso anche con la fuoriuscita di molti occupati dalle forze di lavoro. Le pressioni sui prezzi finali di beni e servizi sarebbero più prolungate di quanto inizialmente stimato, ma dovrebbero riassorbirsi nel 2023.

Nell’area dell’euro, sui dodici mesi, l’inflazione ha toccato in gennaio il 5,1 per cento, il valore più elevato dall’avvio dell’unione monetaria. Il rincaro dell’energia vi ha contribuito direttamente per oltre la metà; anche al netto delle componenti più volatili il forte aumento registrato dalla seconda parte del 2021 ha in larga misura riflesso i maggiori costi dell’energia. Diversamente dagli Stati Uniti, la pressione sui prezzi al consumo dovuta alla ripresa dell’attività produttiva, non discosta oggi dai livelli del 2019, è stata finora modesta. Eccezionale è stato l’incremento delle quotazioni del gas naturale; pur essendosi ridotte dal picco di dicembre, esse sono ancora pari in Europa a quasi sette volte i livelli di inizio 2020: un aumento ben più marcato di quello rilevato negli Stati Uniti, riflesso delle gravissime difficoltà, di natura tanto industriale quanto di politica internazionale, registrate in Europa. Anche il prezzo del petrolio, che già la scorsa primavera aveva recuperato il calo segnato nel 2020, ha continuato a salire, in un contesto di elevata volatilità.

La trasmissione della crescita dei prezzi delle materie prime energetiche a quelli al dettaglio dell’elettricità e del gas sta spingendo i governi dei paesi dell’area dell’euro ad adottare misure volte prevalentemente a mitigare le ricadute sulle famiglie e sulle imprese. In Italia l’intervento, di oltre 5 miliardi nel 2021, ha consentito di contenere per circa un terzo i rialzi delle tariffe dell’elettricità e del gas per gli utenti del mercato tutelato, pari rispettivamente al 12 e al 10 per cento nella media dell’anno; data la forte diffusione di contratti con formule a prezzo fisso nel mercato cosiddetto libero, per il complesso delle famiglie il rincaro di elettricità e gas nel 2021 sarebbe stato inferiore. Tuttavia, all’inizio di quest’anno la crescita dei costi si è intensificata: nonostante gli ulteriori interventi di sostegno decisi a dicembre, nel primo trimestre le tariffe dell’elettricità e del gas dovrebbero aumentare, rispettivamente, del 55 e del 42 per cento rispetto agli ultimi tre mesi del 2021. Come è noto, il Governo ha già adottato misure aggiuntive e sta valutando nuovi interventi.

Le proiezioni degli esperti dell’Eurosistema pubblicate lo scorso dicembre indicavano che nella media del 2022 l’inflazione si sarebbe collocata al di sopra del 3 per cento, riflettendo il forte rincaro dell’energia; si sarebbe quindi ridotta nel corso dell’anno, per poi riportarsi su livelli di poco al di sotto dell’obiettivo del 2 per cento della Banca centrale europea (BCE). Questi ultimi sono in linea con le aspettative di inflazione dei partecipanti alla Survey of Professional Forecasters rilevate in gennaio e con le indicazioni desumibili dalle quotazioni delle attività finanziarie indicizzate ai prezzi al consumo che – pur scontando le più recenti sorprese al rialzo dei prezzi – continuano a segnalare attese di inflazione dell’ordine del 2 per cento dal 2023.

Negli ultimi mesi l’aumento dei prezzi è però risultato superiore a quanto previsto in dicembre e le tensioni sul fronte energetico non si sono ancora allentate. Anche se è probabile che la prevista riduzione dell’inflazione trovi conferma nei prossimi mesi, i rischi di un disancoraggio delle aspettative e di avvio di rincorse tra prezzi e salari, di cui pure al momento non vi è evidenza, vanno attentamente monitorati. L’aumento dei costi delle materie prime energetiche determina a oggi una variazione negativa delle ragioni di scambio, e quindi una riduzione del potere di acquisto dei redditi nell’area dell’euro. Nella media del 2021 la perdita connessa al deterioramento delle ragioni di scambio è stata contenuta intorno all’1 per cento; essa è andata però salendo nel corso dell’anno, portandosi oltre il 2 per cento nel quarto trimestre. Si tratta sostanzialmente di una tassa, probabilmente in buona parte destinata a rientrare, i cui effetti più distorsivi possono essere oggetto di compensazione, ove possibile, a carico dei bilanci pubblici. L’incremento dei costi non deve però trasformarsi in una prolungata spirale inflazionistica.

La scorsa settimana il Consiglio direttivo della BCE ha pertanto confermato la decisione di dicembre di interrompere gli acquisti netti effettuati nell’ambito del programma per l’emergenza pandemica (Pandemic Emergency Purchase Programme, PEPP) alla fine del trimestre in corso. Per garantire una riduzione graduale degli acquisti netti complessivi, si era allora deciso di aumentare quelli condotti con il programma di acquisto di attività finanziarie (Asset Purchase Programme, APP) dagli attuali 20 miliardi al mese, a 40 miliardi nel secondo trimestre del 2022 e a 30 in quello successivo, per poi proseguire a un ritmo mensile di 20 miliardi e terminare poco prima del primo rialzo dei tassi di interesse ufficiali, una sequenza volta a garantire una riduzione ordinata e controllata dello stimolo monetario.

Non ritengo al momento che il quadro complessivo alla base di questo orientamento sia particolarmente cambiato, anche se va riconosciuto che per il breve termine sono aumentati i rischi di variazioni più alte dei prezzi al consumo e di minore dinamica dell’attività produttiva. Nella riunione del Consiglio di marzo questi sviluppi e le loro possibili conseguenze andranno accuratamente approfonditi e discussi. L’orientamento della politica monetaria resta comunque espansivo, anche se la graduale normalizzazione proseguirà a un ritmo coerente con la ripresa dell’economia e l’evoluzione delle prospettive sui prezzi.

Peraltro, come indicato dai risultati della revisione della strategia monetaria della BCE presentata nel luglio scorso, sarà in ogni caso cruciale che le decisioni siano progressive e ben ponderate, anche al fine di non creare incertezze che potrebbero destabilizzare i mercati finanziari e la ripresa dell’economia. La flessibilità rimarrà un ulteriore importante elemento della politica monetaria: accanto alla costante attenzione per l’inflazione, il Consiglio resta pronto a contrastare i rischi provenienti da una ingiustificata frammentazione delle condizioni finanziarie tra le economie dell’area.
In ogni caso, la principale risposta all’aumento del livello dei prezzi dell’energia – un evidente, inatteso, shock di offerta – non dovrebbe provenire dalla politica monetaria, specialmente in assenza di una rincorsa tra salari e prezzi e in presenza di aspettative di inflazione che restano saldamente ancorate all’obiettivo della banca centrale. Mentre sia la politica monetaria sia quella di bilancio possono
contrastare gli effetti inflattivi dei costi dell’energia, solo la seconda è infatti in grado di agire direttamente su questi ultimi, compensando, almeno in una certa misura, la perdita di reddito disponibile e contenendone gli effetti sull’economia.

Guardando oltre l’orizzonte congiunturale, dalla necessaria transizione verso una economia sostenibile possono derivare effetti rilevanti sull’attività economica ma anche sui prezzi relativi dell’energia prodotta dalle diverse fonti, con un possibile impatto sui tassi di inflazione. Ridurre, fino ad annullarle, le emissioni nette di carbonio richiede un aumento del rapporto tra costi dell’energia da fonti fossili e fonti rinnovabili, ma sono ancora incerte le modalità attraverso le quali esso avrà luogo, anche con riferimento, ad esempio, al peso che potranno avere il graduale incremento della tassazione delle prime e il progresso tecnologico e i maggiori investimenti nelle seconde. Quando si tiene conto degli effetti più generali delle misure volte a favorire la transizione non si può escludere che le ripercussioni sull’attività economica siano, almeno per un certo periodo, di natura deflattiva.

Gli aumenti dei prezzi relativi dell’energia da fonti fossili, necessari nella risposta alla sfida epocale del cambiamento climatico, non devono avvenire in modo incontrollato: possono essere dosati mediante misure adeguate, nell’ambito ad esempio di una appropriata politica tariffaria. Ciò segnala comunque l’importanza di definire in tempi brevi una strategia, in particolare a livello europeo, che consideri il problema della diversificazione delle fonti energetiche, il loro stoccaggio e l’individuazione di risorse comuni per la gestione delle crisi energetiche. Solo in questo modo sarà possibile affrontare in maniera coerente un problema che difficilmente potrà essere risolto con politiche economiche di natura congiunturale.

 

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