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ARCIDIOCESI TRENTO * NATALE – VESCOVO LAURO TISI: “C’È IL PERICOLO CHE ESISTANO LE PAROLE E NON LA REALTÀ, CHE LA PAROLA SI SPENGA E DIVENGA SUONO SORDO”

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08.36 - lunedì 25 dicembre 2017

“La Parola si fece carne”. La provocazione del Vangelo di Giovanni è al centro dell’omelia dell’arcivescovo Lauro nel solenne pontificale di Natale, questa mattina (ore 10.00) in cattedrale.

Don Lauro sottolinea il valore vitale delle parole, ma anche i rischi: “C’è il pericolo concreto – sottolinea – che esistano le parole e non la realtà.

Il timore che la parola, da forza creatrice, si spenga e divenga suono sordo, vuoto, senz’anima, è forte. Possono fare questa fine anche gli auguri di Natale.

Mirabile questo Dio che si fa regalare l’attitudine a parlare da Maria e dal falegname di Nazareth. Loro per primi danno a Gesù quella parola che diverrà annuncio di consolazione, giustizia, libertà.

Bellissima l’umiltà di Dio che diventa parola rivestendosi della nostra umanità.

Come sorprendenti sono i trent’anni in cui questa parola rimane custodita nel quotidiano di Nazareth.

Quanto sarebbe bello, se anche le nostre parole ritrovassero il gusto del silenzio della grotta di Betlemme per riprendere verità, incisività, creatività”.

“Questo Dio profondamente umano, che si fa carne nelle donne e negli uomini che sanno essere casa gli uni per gli altri, spesso – argomenta ancora l’Arcivescovo – vorremmo relegarlo in cielo e impedirgli di frequentare l’umano, per poi scaricare su di lui le nostre responsabilità, chiamandolo a intervenire al bisogno, o imputandogli i mali del mondo.

Fare Natale, invece, è accogliere l’Emmanuele, il Dio con noi.

È sapere che abbiamo la possibilità di incidere nella storia, e farla diventare terreno di comunione.

Egli – conclude – è la Parola che si è fatta carne, per trasformare la carne della nostra storia, in Parola di vita. A noi, accogliere o rifiutare”.

 

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25 dicembre 2017 – S. Messa del giorno di Natale – Omelia Arcivescovo Lauro

La parola è un vero miracolo, una realtà straordinaria: è vita e dà vita. Quando una madre mette al mondo un figlio, fa il dono grandissimo della vita.

Altrettanto, però, quando gli insegna le prime parole: dà voce alla vita. Grazie alla parola consegna a lui la possibilità di incontrare gli altri.

Ecco, allora, che la parola rivela il nostro essere affidati agli altri: siamo debitori del dono della parola, così come le nostre parole non vivono senza ascolto.

Le parole dicono dunque il nostro andare “oltre”.

Molti sono però i rischi nell’uso della parola. Tra questi, il fatto che si pensi di aver fatto qualcosa solo perché se n’è parlato.

C’è il pericolo concreto che esistano le parole e non la realtà. Il timore che la parola, da forza creatrice, si spenga e divenga suono sordo, vuoto, senz’anima, è forte. Possono fare questa fine anche gli auguri di Natale.

“La Parola si fece carne”. Straordinaria la provocazione del Vangelo di Giovanni. Mirabile questo Dio che si fa regalare l’attitudine a parlare da Maria e dal falegname di Nazareth.

Loro per primi danno a Gesù quella parola che diverrà annuncio di consolazione, giustizia, libertà. Bellissima l’umiltà di Dio che diventa parola rivestendosi della nostra umanità.

Come sorprendenti sono i trent’anni in cui questa parola rimane custodita nel quotidiano di Nazareth.

Quanto sarebbe bello, se anche le nostre parole ritrovassero il gusto del silenzio della grotta di Betlemme per riprendere verità, incisività, creatività.

La Parola, custodita dal silenzio, ci rivela la bellezza di un Dio che si fregia del titolo di Emmanuele, Dio con noi. La Parola che si fa carne marca la differenza tra “essere con” e “chinarsi su”.

Tra essi c’è un abisso. Gesù non soltanto si china su di noi, ma è “con” noi.

In un mondo dove si tende a mettere distanze, ad avere qualcuno che sta sopra e qualcuno che sta sotto, in un mondo lacerato dalla contrapposizione, rincuora sentire che la voglia di Dio è quella di essere uno di noi, di camminare con noi; prima ancora che di farci del bene, di farci compagnia, essere uno dei nostri, uno della nostra partita.

Qual è questa partita? È farci tornare alla nostra profonda identità che sta nell’amare ed essere amati.

Sembrerà ovvio, ma tale non è: lontano dalle stanze del volersi bene non c’è futuro, non  c’è cambiamento, non c’è innovazione, non c’è pace.

L’”essere con” è il trionfo dell’uguaglianza. L’amore non ha alternative per manifestare se stesso: o trova uguali, o rende uguali. Il “camminare con” non è appiattimento delle identità.

Ma la grande occasione per scoprire la ricchezza degli altri, per trovare soluzioni sorprendenti che la solitudine dell’”io” non è in grado di regalare, scoprendo la ricchezza delle differenze.

“Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo, (…) eppure il mondo non lo ha riconosciuto”: il prologo di Giovanni ci ricorda che questa prospettiva fa fatica ad accreditarsi presso di noi come luce, le tenebre contrastano l’”essere con”.

Questo Dio profondamente umano, che si fa carne nelle donne e negli uomini che sanno essere casa gli uni per gli altri, spesso vorremmo relegarlo in cielo e impedirgli di frequentare l’umano, per poi scaricare su di lui le nostre responsabilità, chiamandolo a intervenire al bisogno, o imputandogli i mali del mondo.

Fare Natale, invece, è accogliere l’Emmanuele, il Dio con noi.

È sapere che abbiamo la possibilità di incidere nella storia, e farla diventare terreno di comunione. Egli è la Parola che si è fatta carne, per trasformare la carne della nostra storia, in Parola di vita.

A noi, accogliere o rifiutare.

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