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LANCIO D'AGENZIA

ACLI TRENTINE * “COMUNITÀ CHE RIGENERANO LA DEMOCRAZIA“: INTERVENTO PRESIDENTE OLIVER, « IL TEMPO CHE STIAMO VIVENDO CHIAMA A PROFONDI CAMBIAMENTI, A PARTIRE DAGLI SPAZI SOCIALI »

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11.04 - sabato 26 marzo 2022

In Movimento. Comunità che rigenerano la democrazia. Il tempo che stiamo vivendo chiama tutte e tutti a profondi cambiamenti, a partire da noi stessi e dagli spazi sociali di cui facciamo parte.

La pandemia da Covid19 è l’ultimo di una serie di eventi planetari che fanno emergere la necessità, qui ed ora, di ricondurre l’umanità verso una nuova alleanza, verso un nuovo patto fra ambiente ed economia, fra società e politica.

Anche l’attuale congiuntura socio-politica, economica e ambientale ci indica quanto vicini siamo alla caduta dei miti basati sul progresso lineare infinito.
Sono invece evidenti gli effetti causati da un modello improntato allo spreco, all’utilizzo, senza ritegno, delle risorse ed all’assenza di una responsabilità diffusa nei confronti delle nuove generazioni.

Contemporaneamente tornano a manifestarsi anche dentro i confini di quello spazio “europeo” al quale avevamo consegnato una promessa di pace, terribili scenari di guerra che, sebbene con tecnologie ogni volta più avanzate, mantiene le sue modalità più antiche, non ultima il ricorso alle religioni e alle identità come strumenti di legittimazione.

Il tutto si muove in una cornice di crisi concatenate e che si autoalimentano: la pandemia che abbiamo già citato, la crisi ambientale che diventa energetica e migratoria.

Si tratta di sfide estreme che, messe insieme, delineano la necessità quel “cambiamento d’epoca” evocato più volte da papa Francesco.
Questa condizione di instabilità globale, unitamente all’ incertezza economica e alle pesanti trasformazioni del mondo del lavoro, ci pongono nelle condizioni di dover affrontare un passaggio storico per gestire il quale sono necessari coraggiosi “cambi di paradigma” per fare in modo che la crisi coincida con un processo di cambiamento e di trasformazioni positive.

Proprio in un contesto segnato dallo smarrimento, dalla crescente sfiducia nei confronti del futuro si possono e si devono riscoprire gli autentici sentimenti della solidarietà, del mutualismo ed i valori dell’essere una collettività coesa e generativa.

Sono questi gli elementi che, a nostro avviso, dovrebbero prefigurare una riforma possibile della politica, un rinnovamento delle classi dirigenti ed il rilancio di un nuovo modello di sviluppo.

É quanto le Acli Trentine hanno inteso portare avanti con l’esperienza di Ricostruire Comunità, iniziata nel 2018 nella Piana Rotaliana per passare al Primiero e ad altre vallate della nostra provincia.
L’obiettivo è quello di organizzare dal basso attività che promuovano la partecipazione delle cittadine e dei cittadini, la promozione di progetti di mutuo aiuto e di co-progettazione, assistenza ed accompagnamento dei soggetti più deboli o colpiti dalla disoccupazione, esempi di animazione sociale, ma anche vere e proprie iniziative di sviluppo economico per rafforzare la coesione interna, lo spirito di collaborazione e la competitività nei nostri territori.

Riconoscersi di nuovo nelle comunità e farne parte attivamente, ognuno con le proprie competenze e con le proprie passioni è il punto di partenza – la vera e propria missione culturale e sociale, prima che politica – di cui ci piacerebbe rendervi partecipi partendo da oggi e da questo momento di confronto e di dialogo.

 

Ripartire dalla partecipazione

Siamo qui per riprendere il filo della partecipazione, per riconnettere i mondi vitali trafitti da una crisi che è anche morale, dove imperversano l’egoismo e il narcisismo e dove la partecipazione politica rischia di riproporre atteggiamenti di pura conservazione e amministrazione dell’esistente.
A fronte di uno scenario così profondamento mutato, il nostro obiettivo rimane però lo stesso di un tempo: ritrovare i valori della nostra democrazia, per riappassionarci ad essa, al ruolo di difesa del bene comune che la Politica ha nel determinare la felicità e il ben-vivere di tutte e di tutti.
A partire dalla nostra pur piccola esperienza ci siamo chiesti quali fossero i soggetti interessati a questa sfida e quali gli elementi sui quali è possibile fondare un processo di ricomposizione e riattivazione.
E la risposta l’abbiamo trovata nelle singole persone e nelle nostre comunità.

 

 

Le comunità “terzo pilastro”

Il professor Stefano Zamagni, padre dell’economia civile e cooperativa e Raghuram Rajan, Presidente della Banca centrale indiana, ci hanno spiegato come l’attuale crisi politica ed economica abbia le proprie radici nel venir meno proprio di uno dei soggetti chiave del sistema ovvero le comunità.
Stato e mercato, ci dicono questi economisti, non possono, da soli, promuovere uno sviluppo equilibrato, sano, sostenibile e democratico del mondo. Occorre, in primo luogo, riattivare una dimensione essenziale del sistema ovvero le comunità intese come insieme coeso e consapevole di cittadini al cui servizio stanno le stesse organizzazioni sociali.
Tuttavia le comunità non possono, da sole, governare i processi economici e politici di cui sono protagoniste in quanto non si possono ricostruire comunità se non muovendo assieme e in una prospettiva di collaborazione anche le realtà economiche e quelle istituzionali.

Oggi, nel rapporto tra società e politica abbiamo bisogno di una nuova visione comune, di nuove logiche e strutture di interazione ovvero di “nuovi paradigmi”.
Tutto ciò va costruito tra tutti i soggetti in campo, a partire dalle esperienze concrete, che oggi abbiamo intenzione di incontrare e ascoltare.
Nei territori in cui è attiva l’esperienza di “Ricostruire Comunità”, per raffigurare proprio questo cambio di prospettiva abbiamo adottato un’immagine o una metafora che vorremmo offrire come riferimento anche in questo contesto.

 

 

La metafora della piazza

La metafora vede le comunità come una grande piazza, dentro cui viviamo noi e vivono in modo indistinto tutti i problemi, i saperi e le risorse di una società.
Questi aspetti nella vita reale non si possono separare, ma si riconoscono in modo distinto nei muri laterali e negli angoli della piazza.
C’è perciò il lato o l’angolo dei giovani, quello delle persone anziane, delle famiglie.
L’angolo della pedagogia, quello della sociologia, dell’economia, della cultura, della cura per l’ambiente.
Questi diversi lati della piazza sono l’esito di un positivo processo di specializzazione che ha prodotto però questa situazione: persone esperte, operatrici, volontarie, persone impegnate o professioniste (ognuna con il proprio ruolo) invece di lavorare sull’intera piazza, hanno lavorato su una sua precisa e delimitata porzione.

Si è lasciata così alle spalle la gran parte della piazza, della comunità, ovvero lo spazio in cui si vive normalmente, in cui nasce il benessere o il malessere, la fiducia o il rancore.
Agire su un singolo aspetto, per esempio il mondo giovanile, senza considerare la sua connessione con altri aspetti (il lavoro, la scuola, il tempo libero, ecc.) rende poco efficace l’azione e ciò comporta anche dispersione di energie e di risorse.

Proprio questa parte scoperta di piazza, di comunità, in cui viviamo, oggi reclama di essere considerata. Ma cosa significa considerarla?
Il cambiamento che si propone, a partire dalla metafora, si raffigura così: cittadinanza, operatrici ed operatori, esperte/i, volontariato, mondo imprenditoriale, politici e istituzioni tutte e tutti sono chiamati a mettersi alle spalle il proprio lato/angolo di riferimento, assumendo pienamente le proprie competenze e il proprio punto di vista, ma guardando insieme tutta la comunità/piazza.
In questo modo la si vedrà tutta intera e si potrà godere del contributo di tanti per comprenderla e per immaginare assieme modi nuovi, forme nuove, per trasformarla in meglio.

Questo incrocio di sguardi e di esperienze ci dirà innanzitutto che non siamo soli nel vedere e nel vivere certi problemi o nel percepire certi bisogni o nel desiderare certi cambiamenti.
Ci dirà anche che, insieme, è possibile cambiare.
La metafora è come detto il riferimento delle esperienze che le Acli stanno promuovendo in diversi territori del Trentino.
E proprio sulla scorta di questa esperienza positiva ci è sembrato naturale dover proseguire il nostro lavoro affrontando i temi della democrazia e della sua rigenerazione, a partire dalle comunità.
Questa convinzione unita alla consapevolezza di non poter agire da soli ci ha portato a immaginare questo evento non come momento informativo ma di confronto e rilancio di questa stessa prospettiva.
Confronto che proseguirà con tutti coloro che ci vorranno stare, per dare continuità a un’azione che deve farsi azione concreta.

Ma attenzione.
Processi così delicati e trasformativi sono condannati a morire o a restare ininfluenti se non crescono e per farlo hanno bisogno di una cura costante, della capacità di generare la necessaria massa critica attraverso la costruzione continua di nuovi legami e relazioni.
Ecco perché abbiamo cercato esperienze, persone, realtà innovative, ciascuna a modo proprio, dentro i diversi ambiti che caratterizzano la vita di una comunità.
Ne abbiamo coinvolte alcune, ma sappiamo che ce ne sono molte di più.
Le abbiamo coinvolte con l’obiettivo di riflettere assieme e, se possibile, di scrivere assieme qualcosa che inneschi o orienti processi integrati di riattivazione della partecipazione – e, con essa, della democrazia – nelle nostre città, nei nostri territori, nelle nostre valli.
Per stimolare il dialogo su questi obiettivi vorremmo offrire alcuni spunti di riflessione, maturati sulla base della nostra esperienza ed alcune domande alle quali provare assieme a rispondere. Visto quanto sopra esposto, la prima domanda è:
A quali condizioni è realizzabile questo cambio di prospettiva e che cosa richiede ai nostri contesti di riferimento, al nostro modo di lavorare?

 

La forza del dialogo

La nostra esperienza – ma sono sicuro che sia un elemento trasversale alle esperienze di tante e tanti – vede alla base di questi processi le relazioni e il dialogo tra le persone.
Senza relazioni – conflittuali, dialoganti, generative – le comunità muoiono.
Senza dialogo le relazioni non sono più generative e la stessa democrazia muore.
Dialogo e relazione non sono, a nostro avviso, un optional e non sono nemmeno competenze generiche o semplicemente personali.
Se la democrazia si nutre di esse occorre chiedersi quanto siano centrali nelle nostre esperienze e quanto possano o debbano essere alimentate in una esperienza di sistema.

Non si tratta, insomma, di due aspetti marginali, parole con cui riempirsi la bocca nel cercare di descrivere il mondo diverso che abbiamo davanti agli occhi e che, ne siamo consapevoli, le nostre organizzazioni, gli enti di prossimità, le istituzioni variamente intese faticano spesso a rappresentare e riconoscere.
Sono la matrice che va a dare senso a quella interconnessione che sta tra il locale e il globale, alla complessità e allo scambio di sguardi che – nella metafora della piazza – è possibile riconoscere solo abbandonando il “proprio” angolo.

Abbandonare gli spazi presidiati per incrociare il nostro sguardo con lo sguardo di altri: quanto i nostri ambiti, singolarmente, sanno collaborare, al loro interno e fuori dai contorni – fittizi – che si sono costruiti?
Quanto questa collaborazione è fondata su una visione comune, sull’abbandono dell’autoreferenzialità?
E cosa si può fare per uscire da questi angoli che appaiono sicuri ma sono in realtà vicoli ciechi?

Per cercare di rendere più efficace il confronto e per dare a tutti la possibilità di elaborare risposte concrete e chiare tracce di lavoro, abbiamo voluto declinare i temi qui oggetto di dibattito dentro alcuni ambiti rilevanti.

 

 

Economie che rigenerano

L’approccio neoliberista e senza regole che caratterizza il nostro sistema economico ha creato pesanti iniquità e disuguaglianze strutturali.
Il mercato non può essere l’unica istituzione a bilanciare i rapporti tra produzione e distribuzione dei beni.
Dato che beni e servizi hanno un contenuto relazionale, insito nei rapporti che si instaurano tra chi li produce o eroga e chi li riceve, è evidente come esista anche una reciprocità che può caratterizzarne lo scambio.
Nella teoria dell’Economia Civile, il fine della reciprocità è la fraternità.
Come ha affermato spesso Zamagni l’Economia Civile di Mercato non è un’astratta aspirazione ma è “il modello italiano”, la nostra storia e la nostra forza.
L’Economia Civile non contrappone Stato e mercato o mercato e società civile ma punta ad unirli, rendendo più democratico il sistema economico.
Nei contesti territoriali in cui il mondo delle imprese può incontrare le comunità è da chiedersi tuttavia come questo unione possa concretamente avvenire: a fronte di quali stimoli, con quali prospettive, quali strumenti, quali iniziative. Cosa è necessario anche da un punto di vista legislativo per muovere in questa direzione e quali barriere occorre invece abbattere.
Come attuare oggi un modello di sviluppo che abbia al centro i principi dell’economia civile, a partire dalla ricchissima mappa delle comunità locali?

 

 

Ricostruire i legami deboli: la cura e la prossimità

Che senso ha parlare di comunità in chiave politica?
Ce lo spiegava già Aristotele nel suo libro Politica: “un insieme coeso di famiglie dà origine al villaggio … un insieme coeso di villaggi dà origine alla polis”.
L’insieme coeso di persone e poi di comunità è dunque il fondamento della polis.
Una coesione comunitaria che nasce su valori chiari e condivisi: solidarietà e mutualismo e non sfruttamento ed estrazione di valore; cura dei bisogni materiali e non tutela dei privilegi acquisiti; ecologismo e cura del mondo, per stare “con” gli ecosistemi e non piegarli al mercato”.
Ma oggi le nostre comunità sono soggetti in crisi e rischiano spesso di diventare delle scatole vuote, senza identità, senza strumenti, senza strutture minime organizzate, senza luoghi in cui trovarsi, senza spazi in cui riflettere, condividere, confrontarsi, progettare.

A chi il compito di ricostruire i legami deboli che stanno alla base di queste comunità evanescenti?
Non è, forse, un compito primario del mondo sociale, delle associazioni, del terzo settore?
Non è forse questo un appello urgente per ricostruire le alleanze necessarie con la politica e la rappresentanza, secondo coordinate chiare, quelle della solidarietà umana, sociale ed ecologica?
Non è forse il bisogno di uscire dalla nostra autoreferenzialità per assolvere, dai diversi punti di vista, ad un compito comune e tutto politico? E non è forse questo un appello a riattivare relazioni, cittadine e cittadini, non in funzione della sopravvivenza delle nostre singole organizzazioni ma per restituire a tutti e tutte il potere di cambiare le cose, di perseguire il benessere comune, il senso del nostro stare insieme?
Come possiamo quindi condividere strumenti, ipotesi, competenze che moltiplichino il riattivarsi di processi partecipativi nei nostri quartieri, nei comuni, nelle valli e nelle città?

 

 

Comunicare per mobilitare

Oggi il sistema della comunicazione rischia di alimentare se stesso e i propri profitti, rinunciando alla funzione di promozione sociale dei cittadini.
Come sostenuto da Mario Perniola nel suo libro “Contro la comunicazione” la comunicazione è l’opposto della conoscenza.
Inoltre, risvolto molto preoccupante, l’avvento dei social media ha consentito al “primo potere” (la politica) di riassorbire il “quarto potere” (l’informazione).
Potendo gestire direttamente i propri canali comunicativi la politica non consente più mediazione, confronto e critica.
Come creare un nuovo spazio per l’opinione pubblica al riparo dai processi di svuotamento tipici della comunicazione attuale, affinché le idee possano germogliare e creare pensiero politico?

 

 

Cedere potere è il primo passo

Anche come Acli siamo perennemente alla ricerca di giovani affinché possano affiancarci e proseguire secondo la nostra visione senza accorgerci che è proprio questo approccio alla radice delle ipocrisie del mondo adulto verso le nuove generazioni.
Siamo disponibili a “fare spazio” ma non “a lasciare spazio”.

Per essere realmente accoglienti serve immaginare con loro spazi dove poter costruire dibattito, sviluppare pensiero critico sulle tematiche della comunità.
Serve cedere parte del nostro potere, delle prerogative che immaginiamo come acquisite, per lasciare che vengono modificate le regole del gioco: non sta ai giovani e alle giovani “adattarsi” al mondo adulto ma entrambi, reciprocamente, devono escogitare strategie per convivere.
Le richieste che ci arrivano direttamente dalle ragazze e dai ragazzi che incontriamo sono quelle di creare contesti dove si possano sentire protagonisti e a loro agio, di fornire strumenti per la lettura della realtà, della buona politica, delle dinamiche della comunità.
Sono le nostre organizzazioni, quindi, a non essere più adeguate, troppo complesse, quasi soffocanti?

Dobbiamo rassegnarci al progressivo invecchiamento delle basi associative, delle persone disponibili ad essere attive in politica attiva e dell’elettorato?
Oppure dobbiamo invece ammettere che i giovani frequentano con continuità ed assiduità solo gli spazi da loro creati e riempiti di contenuti e sono i “nostri” spazi a non essere realmente accoglienti?

Lo stesso discorso per certi versi può valere anche per il tema della partecipazione femminile nelle democrazie.
Sollevare la questione è fondamentale. Così come è fondamentale domandarsi cosa serve per aumentare questa partecipazione.
Ma poiché il tempo è poco e i punti da sollevare sarebbero moltissimi, forse conviene farsi la domanda opposta: cosa non serve alle donne per entrare maggiormente nella dimensione e negli spazi politici?

In questo caso il lavoro di sintesi riesce più facile perché la risposta è una: alle donne non servono gli uomini.
Qualcuno potrebbe pensare che forse è estremo parlare in questi termini, che questa affermazione possa servire solo a dare spazio ad una rabbia latente e che invece sarebbe più utile dare voce a pensieri su come migliorare assieme e diventare tutti femministi.
Perché è vero, abbiamo bisogno anche di questo.

Così come di far sì che di politiche di genere non si occupino solo le donne e che le donne non si occupino solo di politiche di genere. O di trasformare gli orari della politica perché permettano alle donne, spesso chiamate a ricoprire ruoli di cura, di partecipare più facilmente (perché bisogna fare gli incontri di sera?). O di ragionare su modelli di leadership femminista, fatti di condivisione e pluralità, in cui serve credere anche adesso, in un momento in cui non riescono ancora a dare frutti.

Ma il problema è che su quel concetto, delle donne a cui non servono gli uomini, abbiamo un’urgenza quasi maggiore. Perché finché si continuerà a dare per scontato un modello dove lo spazio è degli uomini e che per poterlo condividere le donne devono cercare, ineluttabilmente, l’appoggio e l’approvazione del mondo maschile, le donne non potranno che rimanere una minoranza politica. Iniziare a interiorizzare questo concetto è quindi il primo passo verso una politica più femminile, sana, eterogenea, radicale ed ambiziosa.

Può il tema del fare insieme per la comunità essere un terreno su cui ritrovarsi tra generazioni e generi diversi, per costruire insieme il presente e il futuro con un po’ più di coraggio sfidante (quello dei giovani e del femminismo)?

 

 

Oltre la sfiducia: per una nuova stagione politica

La distanza tra politica e cittadini è un fatto doloroso e problematico.
L’affluenza alle urne alle elezioni politiche si è ridotta dal 94% che caratterizzava la partecipazione al voto fino al termine degli anni ‘70, al 72% registrato nel 2018.
La politica viene abbandonata, ma il desiderio di partecipare ed essere ascoltati al contrario è in crescita, anche se tende a manifestarsi in altri modi: dal volontariato ai gruppi di acquisto solidali, dalla creazione di “comitati” alle agguerrite discussioni sui social media.
Anche questo è un fatto e non può essere ignorato perché ci riconduce al tema delle comunità assenti e quindi inascoltate.
È necessario ricostruire una pedagogia della proposta politica, sono troppi quelli che per ogni problema hanno soluzioni facili.
Connettere le questioni, considerandone la reale complessità, è Politica: è riacquistare un “pensiero lungo” così necessario alle questioni intergenerazionali, che non sono risolvibili tra un’elezione e l’altra.

Seguendo anche le tracce del pensiero di Adriano Olivetti la comunità diventa il luogo di convergenza delle funzioni, dove lo Stato assume il suo significato e il suo spessore incontrando non solo gli interessi dei singoli ma di collettività.
Non è forse la comunità un livello essenziale anche per lo svolgimento della funzione politico-istituzionale? Come ricostruire un senso di reciprocità tra comunità e politica?
E quali scenari apre l’innesto della comunità rispetto alla vita politica-istituzionale?

 

 

Un’Autonomia oltre la sua Storia

Torniamo a noi e alla nostra geografia più prossima per chiudere questo intervento introduttivo.
La congiuntura storica che stiamo vivendo riconsegna ai territori montani una nuova forma di protagonismo dovuta alla fine del lungo ciclo di crescita della aree urbanizzate, dei distretti industriali e della cosiddetta “città infinita” che hanno caratterizzato il paesaggio socio economico italiano degli ultimi decenni.
Mentre la pianura e le grandi conformazioni urbane appaiono prossime alla saturazione edilizia e declinano verso i cosiddetti “non luoghi” privi di identità e prospettiva, la montagna appare come un territorio da ripensare, dotato di interessanti potenzialità e di una rinnovata “mission” che la rende un ambiente

nuovamente competitivo e complementare rispetto alla pianura.
E’ su questi elementi e su queste potenzialità che siamo chiamati, anche in Trentino, a riflettere al fine di elaborare un nuovo senso da dare alla nostra Autonomia speciale e alla nostra cultura di autogoverno.

Allo stesso modo di Ricostruire comunità, si tratta pertanto di tornare alle nostre radici, ovvero laddove si è formata la cultura dell’autogoverno del territorio attraverso le buone pratiche gestionali degli Usi civici e delle proprietà collettive nonché della cooperazione delle origini. Per fare questo però è necessario pensare e formare una nuova classe dirigente.

E’ questa la sfida del nostro millennio ed è in montagna, prima che altrove, che sarà possibile sperimentare forme radicali di cambiamento per una reale e concreta riconversione ecologica dell’economia.

Il limite (fisico, geografico e delle risorse) può essere un elemento di valore attorno al quale fondare un nuovo modello di sviluppo?

 

 

Siamo in movimento

Le Acli, così come molte delle organizzazioni oggi qui presenti sono già al lavoro per offrire il proprio contributo alla soluzione dei problemi, piccoli e grandi, che affliggono la vita di ciascuno.
Questo lavoro di prossimità proseguirà, senza se e senza ma, indipendentemente dalla qualità delle proposte e dei progetti che cittadini e istituzioni sapranno elaborare e mettere in campo.

I risultati di questa azione di cura sono però necessariamente limitati a ridurre i sintomi, ad attenuare l’impatto delle storture, a garantire il rispetto dei diritti già riconosciuti e codificati. Nelle pagine precedenti e, soprattutto, nella nostra esperienza affondano le radici di una lucida consapevolezza: solo attraverso un’alleanza ispirata dalla fraternità, solo accogliendo come ricchezza la diversità che caratterizza la nostra società che possiamo cogliere iniziando a guardare verso il centro delle nostre piazze e solo abbandonando lo status quo per metterci “In Movimento” potremo dare garanzie di successo a quelle azioni di prevenzione che possono evitare il deprecabile spreco delle risorse e che generano la fiducia necessaria ad alimentare ulteriore impegno, avviando così un circolo virtuoso che raggio dopo raggio, può ampliarsi fino a diventare la normalità.

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