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ISTITUTO CATTANEO * ELEZIONI POLITICHE 4 MARZO 2018: IN TRENTINO AA PD -12,5% / LEGA +371,3% / M5S +31.5 %, LE PERCENTUALI DI VARIAZIONE DEL VOTO RISPETTO AL 2013 (PDF)

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14.01 - martedì 13 marzo 2018

 

Quelle curiose somiglianze nella nuova geografia del voto.

Dall’analisi territoriale del voto cominciano ad emergere curiose somiglianze e alcuni indizi di cui solo studi più approfonditi potranno spiegare l’eventuale significato. Per ora possono essere presi come una «notizia» e un quesito per ricerche future.

Uno di questi indizi riguarda la notevole coincidenza tra la distribuzione territoriale del voto ai 5 Stelle e quello alla Dc del 1992, quando la Dc si era già meridionalizzata avendo ceduto al Nord voti alla Lega (mappe di pagina 2). È impressionante notare la quasi perfetta identità delle percentuali di voto, soprattutto al Sud, ma non solo. La differenza tra voto alla Dc e voto ai 5 Stelle è particolarmente marcata solo in Emilia-Romagna (a vantaggio dei 5 Stelle) e in Veneto (in senso contrario), cioè nelle regioni un tempo epicentro e simbolo delle due principali sub-culture territoriali della prima repubblica. Nella zona bianca si è andato da tempo consolidando il voto alla Lega che quest’anno ottiene in Veneto il suo risultato migliore, raggiungendo il 32,6% dei voti. In Emilia-Romagna passa dal 2,6 al 19,6% (se per il 2018 si calcolano soli i voti rivolti espressamente ai singoli partiti).

Un secondo stimolo ad ulteriori approfondimenti viene dal confronto tra il voto al Pd nel 2018 e il voto al Pds nel 1992 (mappe di pagina 3). Come per il Pds, il Pd mantiene nella «zona rossa» (Emilia- Romagna, Toscana, Marche, Umbria) percentuali di voto più alte rispetto al resto del paese. Il Pd è relativamente più forte al Nord, laddove il Pds aveva (fuori dalla «zona rossa») un elettorato omogeneamente distribuito tra Nord e Sud. Se si guardano le percentuali di voto (e non l’intensità del colore, che segnala le regioni in cui il partito è relativamente più forte), si vede che dalle Marche in giù il Pd 2018 ottiene risultati pressoché identici, regione per regione, a quelli del Pds nel 1992, esattamente come le percentuali di voto per il M5s nel 2018 sono pressoché identiche a quelle della Dc nel 1992. Naturalmente, potrebbe essere un caso.

Se poi ci si chiede dove il PD del 2018 abbia retto meglio, rispetto al 2013, si trova un altro indizio che fa il paio con il primo. Per misurare la tenuta di un partito rispetto alle elezioni precedenti si possono usare due diverse misure: l’incremento/decremento percentuale dei voti nell’ultimo anno rispetto alla precedente tornata; la semplice differenza tra le percentuali ottenute nei due anni. Se un partito passa in un collegio dal 20 al 10%, vuol dire che il suo consenso ha subito un decremento del 50% (primo metodo), e una riduzione di 10 punti percentuali (secondo metodo).

Le due mappe di pagina 4 riportano le due misure, calcolate per ciascun collegio della Camera. Emerge chiaramente che, qualunque metro si utilizzi, il Pd ha perso di più (ha tenuto peggio) nel Sud, con poche eccezioni tra cui la Puglia, mentre ha perso di meno (ha tenuto meglio) al Nord, con la vistosa eccezione dell’Emilia-Romagna. La tabella finale fornisce i dati per regione e documenta con maggiore precisione quanto emerge visivamente dalle mappe.

Quindi, per un apparente paradosso, il Pd è andato peggio in una delle regioni dove ha preso più seggi, cosa avvenuta solo perché lì partiva da una eredità più grande, che si va da tempo erodendo. Il rapido esaurirsi di quella eredità rende la regione un tempo epicentro della «zona rossa» sempre più simile, sul piano politico, alle altre regioni del Nord, tanto che, con la crescita della Lega e la tenuta dei cinquestelle, il Pd risulta declassato a secondo partito.

 

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