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LANCIO D'AGENZIA

FUGATTI – BINELLI – CATTOI – SEGNANA – ZANOTELLI – MOZIONE * BCC: ” PREVEDERE UNA MORATORIA DEL TERMINE DI 18 MESI “

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13.18 - lunedì 7 maggio 2018

Mozione. La Camera,premesso che: il prossimo 3 maggio scade il termine per la presentazione della domanda di costituzione dei nuovi gruppi bancari cooperativi in base a quanto stabilito dalla riforma contenuta nella legge n. 49 del 2016 di conversione, con modificazioni, del decreto legge 14 febbraio 2016, n. 18, che ha prescritto un periodo di 18 mesi a decorrere dall’entrata in vigore delle disposizioni di attuazione stabilite dalla Banca d’Italia, emanate il 3 novembre 2016;

la normativa di risulta tra la legge nazionale e quella applicativa è molto complessa: il prossimo 3 maggio è la data in cui si dovrà presentare la domanda di costituzione, tramite invio del contratto di coesione e degli statuti delle banche aderenti, e la domanda di l’iscrizione del nuovo gruppo cooperativo all’albo dei gruppi bancari.

La costituzione vera e propria dei gruppi seguirà poi il particolare scadenzario stabilito dalla Banca d’Italia nella circolare n. 285 (del 17 dicembre 2013, 19° aggiornamento);
il citato decreto legge ha previsto, tramite l’introduzione dell’articolo 37-bis nel decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 (TUB), che i citati gruppi bancari cooperativi siano composti da una società per azioni capogruppo, le Bcc Bbc e le società bancarie controllate dalla capogruppo.

La riforma ha sconvolto il precedente panorama del settore cooperativo, ridisegnando un sistema formato da piccole realtà territoriali e sostituendolo con un’unica holding che, oltre a perdere il carattere di mutualità e cooperazione, garantiti dall’articolo 45 della nostra Costituzione, non riuscirà nemmeno a replicare modelli presenti in altre nazioni europee per evidenti disparità dimensionali;

gruppi olandesi, francesi o tedeschi costituiti in holding di BCC sono da 50 a 60 volte più grandi della dimensione ipotizzata per i costituendi gruppi bancari cooperativi italiani. In questo modo è dunque probabile che si genererà un ibrido che perderà le caratteristiche specifiche della cooperazione nel settore creditizio, tese a valorizzare le specificità locali, culturali, socioeconomiche dei diversi territori italiani, ma che, nel contempo, non sarà in grado di paragonarsi ad omologhi gruppi con cui confrontarsi nel mercato creditizio mondiale;

l’unica garanzia di difesa del territorio, concessa in sede di conversione del decreto legge, riguarda la possibilità di creare eventuali sottogruppi territoriali; per le province autonome di Trento e Bolzano è stato invece stabilito che le banche di credito cooperative aventi sede legale nelle stesse potessero costituire autonomi gruppi bancari cooperativi composti solo da banche aventi sede (ed operanti esclusivamente) nei medesimi territori, tra cui la corrispondente banca capogruppo, la quale può adottare anche la forma di società cooperativa per azioni a responsabilità limitata; di questa opportunità hanno approfittato solo gli istituti Raiffeisen della provincia autonoma di Bolzano, mentre nella provincia autonoma di Trento si è scelto di dar vita a un gruppo di livello nazionale, Cassa Centrale Banca;

la relazione illustrativa di accompagnamento alla legge di conversione, recitava che, a causa di «talune debolezze strutturali», degli «assetti organizzativi» e della «dimensione ridotta» delle banche cooperative, si rendeva necessario superare l’ostacolo di alcuni «tratti costitutivi della forma giuridica cooperativa in quanto tale», prevedendo «l’obbligatoria appartenenza a un gruppo bancario cooperativo», la cui capogruppo si costituisse in forma di società per azioni «al fine di favorire l’accesso al mercato dei capitali e alla patrimonializzazione». Nella stessa relazione si attestava, altresì, che una simile ristrutturazione non avrebbe in alcun modo alterato la qualificazione delle BCC in qualità di cooperative a mutualità prevalente;

non si può certo negare che una simile impostazione provenga dalle tesi allora maggioritarie sviluppate dalla Banca d’Italia in merito alla convinzione che sia impossibile poter vigilare correttamente su piccole entità bancarie. Su questo punto, Carmelo Barbagallo, Capo del Dipartimento della Vigilanza bancaria e finanziaria della Banca d’Italia, in sede di audizione presso la VI Commissione della Camera dei Deputati, il 9 dicembre 2015, espresse una posizione nettamente favorevole ad operazioni di concentrazione, soprattutto per le banche di medie e piccole dimensioni.

La tesi è stata poi ulteriormente confermata in sede di audizione sul decreto legge in oggetto, il 1 marzo 2016, in cui lo stesso Capo della Vigilanza ha confermato che: «nella prolungata fase di crisi economica, l’aumento della rischiosità dei prenditori e la stasi delle erogazioni hanno eroso i profitti rendendo più vulnerabili le BCC, caratterizzate da dimensioni contenute e da una operatività concentrata in ambiti territoriali ristretti» ripercuotendosi sulle possibilità di diversificazione del rischio;

le drammatiche vicende vissute dalle banche poste in risoluzione, così come da Monte dei Paschi di Siena e dalle banche popolari venete, con le gravi ricadute avutesi sui risparmiatori, hanno dimostrato che la dimensione è tutt’altro che un requisito utile ad agevolare il controllo da parte degli enti preposti. Proprio nei confronti delle popolari venete, che erano nel novero dei 5 maggiori istituti di credito del Paese, Banca d’Italia e CONSOB hanno dimostrato gravi carenze nell’adempiere al loro ruolo istituzionale di vigilanza e tutela;

non risulta pertanto alcuna evidenza empirica secondo la quale istituti di maggiori dimensioni siano più facilmente controllabili e più stabili e, tantomeno, che le sofferenze dei piccoli istituti mettano in pericolo la stabilità dell’intero sistema bancario del Paese;

all’epoca dell’emanazione del decreto, in Italia, le banche più piccole avevano 17 miliardi di euro di sofferenze a fronte dei 39 miliardi delle banche più grandi e dei 133 miliardi delle prime cinque banche, con un credito erogato che, per le banche di medie e piccole dimensioni, si attestava tra i 156 e 178 miliardi di euro;

non si sono quindi comprese a fondo le ragioni di una simile riforma quando anche la Banca d’Italia confermava la gestione più prudenziale delle “banche di minore dimensione, in prevalenza di credito cooperativo, anche per effetto del peso più elevato delle garanzie sui prestiti (79,8 per cento a fronte di una media di sistema del 66,5)”.

Sembra essere scontato, dunque, che tutta questa riforma sia stata interessata da una deliberata eterogenesi dei fini: si sono abbandonati i principi di mutualità per far spazio alle ragioni del libero mercato, agevolando l’entrata, anche nelle BCC, così com’è stato nelle popolari, di investitori, nazionali e non, ben poco interessati allo sviluppo e al sostegno del territorio e al tessuto delle piccole e medie imprese, fondamentale per l’economia del nostro Paese e strategico per la nostra capacità di competere in ambito internazionale;

anche facendo riferimento alla crisi americana dei subprime si è sempre affermato di dover evitare ad ogni costo il rischio del moral hazard che si può sviluppare nelle grandi banche in ragione del principio ‘too big to fail’. Al contrario, nel nostro Paese, si sono volute accorpare le piccole banche, quelle che, per quanto evidenziato, non sono suscettibili di creare grandi shock al sistema;

ancora, la scelta del limite minimo di 1 miliardo di patrimonio netto per la capogruppo annulla del tutto la valenza territoriale del sistema mutualistico, postulando necessariamente la creazione di due grandi holding nazionali e una provinciale, governate in modo verticistico. Da quanto si apprende, infatti, si sta andando verso la creazione di un’unica holding nazionale (il polo romano di Iccrea), affiancata solamente dalla trentina Cassa Centrale Banca e dall’altoatesina Raiffeisen, in cui devono confluire le circa 280 Bcc oggi esistenti;

la richiesta presentata nelle scorse settimane da Raiffeisen per la costituzione di un gruppo bancario provinciale è già stata avanzata, mentre, per Iccrea e Cassa Centrale Banca, il processo in vista della presentazione delle istanze di costituzione dei due gruppi significativi pare più indietro;

la prossima conseguenza, già paventata all’epoca della riforma, sarà il forte condizionamento che simili gruppi eserciteranno sulla libertà di azione e sull’autonomia delle BCC in sede locale, come pure quello derivante dalla vigilanza europea: Iccrea e Cassa Centrale Banca, che da sole raggrupperanno circa 260 banche, saranno infatti sottoposte alla vigilanza unica con la sottoposizione al Comprehensive Assesment della BCE, che comprende la verifica degli attivi (Asset quality review) e gli stress test;
in conseguenza di questa modifica, si stima che le BCC saranno costrette a reperire nuovi capitali in misura pari a circa 700 milioni di euro per il gruppo Cassa Centrale e 1,8 miliardi per il gruppo ICCREA, o a ridurre sensibilmente l’offerta di credito;

per questa ragione, lo scorso dicembre, la Banca d’Italia ha inviato un documento alle 260 BCC interessate in cui si richiede di allinearsi “al più presto” alle linee guida delle due capogruppo al fine di prepararsi al prossimo vaglio della vigilanza europea, dato che circa un terzo delle BCC italiana sia considerato ad alto rischio e un altro quarto mediamente a rischio;

al riguardo è il caso di ricordare come, in Germania, le Sparkassen e le Volksbanken tedesche non rientrino invece pienamente nella normativa europea, non soltanto per quanto riguarda i requisiti di capitale e liquidità, ma anche per quanto riguarda la vigilanza europea. Secondo la Bundesbank, le banche territoriali tedesche che non rientrano sotto la vigilanza unica sono oltre 1500, pari all’88% degli istituti di credito tedeschi, e gestiscono circa il 44% dei prestiti erogati dall’intero settore bancario, che quindi non sono soggetti alla vigilanza unica europea.

In particolare, su 431 Sparkassen tedesche, sola una è vigilata dalla BCE (e si consideri che in totale queste contano per il 22,3% degli impieghi bancari). Va notato che in Italia la percentuale di crediti non soggetti alla vigilanza unica è molto inferiore, aggirandosi attorno al 20%, e la riforma delle BCC ridurrebbe questa percentuale di almeno altri 7 punti, portando virtualmente tutto il nostro sistema bancario sotto la vigilanza unica, mentre il 44% di quello tedesco viene vigilato dall’autorità nazionale (il Bafin).

Questo perché all’epoca della costruzione del primo pilastro, ossia della vigilanza unica, le grandi banche tedesche, il cui numero è relativamente ridotto, hanno beneficiato della fissazione a 30 miliardi di assets quale livello minimo, mentre, per le piccole banche, sono stati tenuti fuori dalla vigilanza unica i cosiddetti IPS (Institutional Protection Schemes), ossia i sistemi di mutua protezione e garanzia tra le banche associate, che differiscono sia dai gruppi bancari che dai network bancari, ampiamente diffusi in Germania (Sparkassen e Volksbanken) e Austria (banche Raiffeisen);

in Italia, invece di ricorrere agli IPS, con i privilegi che essi garantiscono e dei quali le banche dei nostri concorrenti godono, abbiamo scelto di azzerare un patrimonio territoriale che anche Federcasse, seppur all’epoca gran sostenitrice della riforma, considerava invece necessario tutelare in virtù delle «particolari forme di coesione ed organizzazione a livello territoriale»;

In questo modo sono state ignorate le peculiarità, linguistiche, socioeconomiche, culturali, che rappresentano, invece, una peculiarità e un importante valore aggiunto dell’intero Paese;

tali argomentazioni, già ampiamente discusse durante l’esame del decreto legge nelle assemblee parlamentari, sono ancora oggi attuali e cogenti. All’approssimarsi della scadenza sono ancora molte le voci che chiedono una revisione della riforma: il Presidente dell’Associazione generale cooperative italiane (Agci), Brenno Begani, ha richiesto una fase “di ulteriore e necessaria riflessione sull’impostazione della riforma del credito cooperativo per salvaguardare la biodiversità bancaria e per non soffocare realtà fortemente radicate”. Il Presidente Agci spiega che l’assorbimento totale di tutte le Bcc italiane in grandi poli bancari, «con spazi limitati di autonomia rispetto alla Capogruppo, reca in sé il tangibile pericolo di declino dell’identità cooperativa e dei principi mutualistici nel settore del credito». E ancora, continua che, in questo modo, si «rischia di non incentivare lo sviluppo socio-economico a livello locale e, più in generale, di non rendere onore al principio di meritocrazia, che imporrebbe di premiare e non di mortificare i più virtuosi, poiché proprio i soggetti sani hanno maggiore patrimonio libero e minori rischi in portafoglio»;

dunque, la riforma del credito cooperativo in oggetto non soltanto ha creato una frattura nel sistema mutualistico delle banche locali, con le sopraesposte conseguenze economico-sociali che si stanno verificando nelle differenti territorialità del Paese, ma sembra anche violare, con tutta evidenza, le disposizioni di rango costituzionale del nostro ordinamento: da un lato, tali rischi di concentrazione, già paventati all’epoca dell’esame del decreto, si stanno concretizzando e profileranno una violazione della normativa europea in materia del rispetto della concorrenza (artt. 101 e 102 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea); dall’altro, a livello interno, si sono violati differenti disposizioni e principi della nostra carta costituzionale. Innanzitutto, la disparità di trattamento per le province autonome, pur se fondato sul rispetto della diversità e delle minoranze, non trova uguale contemperamento nel rispetto del principio di uguaglianza con riguardo al diverso trattamento riservato al restante territorio nazionale.

Quest’ultimo sembrerebbe anche violato dalla clausola del way out (possibilità, per gli istituti con un patrimonio netto superiore a 200 milioni di poter scorporare l’attività bancaria conferendola ad un istituto di credito costituito in società per azioni, corrispondendo all’erario un’imposta straordinaria pari al 20% dello stesso);

un’altra disposizione di dubbia costituzionalità, difficilmente conciliabile con il principio di libera iniziativa economica tutelata dall’art. 41, sembrerebbe essere il divieto di trasformazione in banca popolare: in caso di esclusione dalla superholding, la BCC può continuare la sua attività solo con l’autorizzazione della Banca d’Italia e la trasformazione in spa, pena la liquidazione, ma è escluso, com’era prima della riforma, la fusione con banche di diversa natura da cui risultino banche popolari;

quest’ultima norma è stata infatti attaccata da più fronti, perché inficerebbe gravemente la tutela dei depositanti, contrastando con l’articolo 47 della Costituzione, in merito alla tutela del risparmio, e con articolo 45, in merito alla tutela e alla promozione della cooperazione,

 

impegna il governo:
a prendere le necessarie misure, anche di carattere normativo, al fine di prevedere una moratoria del termine di 18 mesi scadenti il prossimo 3 maggio o, in ogni modo, al fine di prevedere la sospensione dei termini entro i quali dovranno essere costituiti i gruppi bancari cooperativi.

 

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Fugatti Maurizio, Binelli Diego, Cattoi Vanessa, Segnana Stefania, Zanotelli Giulia

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