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EDILIZIA ABITATIVA: OPENPOLIS, PELUGO E TRENTO I COMUNI PIÙ VIRTUOSI

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10.10 - lunedì 30 gennaio 2017

(Fonte: Openpolis) – Il diritto alla casa dovrebbe essere garantito in modo uniforme su tutto il territorio nazionale. Ma dai bilanci comunali emerge che la spesa per gli alloggi sociali varia molto da città a città. Con diverse criticità nelle politiche in grado di rispondere alle esigenze dei cittadini più deboli.

 

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Politiche abitative: dallo stato agli enti territoriali

Quanto è effettivo il diritto alla casa, in Italia? Secondo una stima dell’associazione Federcasa sono circa 650mila le domande inevase di alloggi popolari. Si tratta di famiglie che rientrano nelle graduatorie municipali, ma a cui il comune non può assegnare la casa a cui hanno diritto. È possibile che con la crisi economica siano aumentati i potenziali destinatari degli alloggi sociali. Ma il problema abitativo va letto soprattutto dal lato dell’offerta.

A partire dagli anni ‘90, diverse leggi (per prima la 560/1993) hanno imposto la vendita di parte del patrimonio residenziale pubblico. Una scelta pensata più per fare cassa e mettere in ordine i conti che per raccogliere risorse per ristrutturare o costruire nuove strutture. E infatti negli stessi anni lo stato ha man mano ridotto i suoi interventi in materia di politiche abitative, lasciando che se ne occupassero regioni e comuni.

Dapprima con il decreto legislativo 112/1998 e poi con la riforma costituzionale del titolo V del 2001 la programmazione passa definitivamente alle regioni. Da allora il governo nazionale si limita a stabilire gli standard minimi (come l’uniformità dei criteri di assegnazione), anche se negli ultimi anni ha cercato di recuperare una propria iniziativa con l’adozione di diversi piani casa (ultimi quello del 2014 a firma Renzi e Lupi e alcune disposizioni del recentissimo “casa Italia”). Provvedimenti che comunque non cancellano la tendenza a delegare queste competenze agli enti locali. Con le leggi 449/1997 e 388/2000 gli alloggi di proprietà dello stato sono stati ceduti gratuitamente ai comuni oppure agli istituti case popolari del territorio.

In fatto di politiche abitative sono infatti coinvolti diversi attori istituzionali, oltre ai comuni:

lo stato, che fissa le livelli essenziali delle prestazioni in tema di diritto alla casa;
le regioni, che coordinano e programmano gli interventi sul territorio;
le aziende per il diritto alla casa, ovvero gli ex istituti autonomi case popolari, che gestiscono gli alloggi sul territorio, e sono proprietarie di circa 800mila alloggi pubblici sui 945mila esistenti in Italia.

 

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Che cosa fanno i comuni?

In questo quadro si potrebbe pensare che i comuni ricoprano un ruolo marginale, in quanto proprietari solo di una minoranza del patrimonio complessivo. In realtà mantengono diverse prerogative fondamentali. Sono infatti i comuni a stilare le graduatorie e assegnare le case a chi ne ha diritto, e a poter arginare il disagio abitativo in vari modi. Per esempio le municipalità:

provvedono alla manutenzione e alla ristrutturazione delle case popolari sul loro territorio, e possono finanziare la costruzione di nuovi;
con gli strumenti di politica urbanistica, stabiliscono le aree dove possono insediarsi gli alloggi convenzionati e sociali;
possono concedere contributi agli affitti delle famiglie più povere o di quelle che si trovano in morosità incolpevole.

Si tratta di compiti molto importanti, ed è interessante capire quante sono le risorse stanziate dalle amministrazioni locali per queste funzioni. Nei bilanci comunali è presente una voce che finanzia le attività relative all’edilizia economica e popolare appena viste, consultabile sulla piattaforma openbilanci. E che comprende anche i costi per mantenere gli uffici che se ne occupano. Osservando i dati pro capite di questa spesa nel 2014 nelle città con oltre 200mila abitanti si nota un quadro molto differenziato da città e città.

 

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È Milano il comune italiano che spende di più per l’edilizia pubblica con oltre 75 euro pro capite, cui seguono Venezia (42 euro per ogni abitante) e Firenze (35,84 euro). La capitale è all’ottavo posto, mentre nelle ultime posizioni della classifica troviamo Palermo, Genova e Trieste, tutte con meno di 5 euro per ciascun residente.

La gravità del disagio abitativo

La grande variabilità di queste cifre mette in evidenza una possibile disparità di trattamento nelle diverse parti d’Italia. Per capire le reali esigenze di ciascun territorio in termini di disagio abitativo, bisogna confrontare questa voce di spesa con un indicatore che segnali la gravità del “problema casa”. Purtroppo, nonostante ogni regione abbia un proprio osservatorio tematico, non sempre sono disponibili dati omogenei e disaggregati a livello comunale che consentano una comparazione.

Un indicatore che misura, almeno in parte, la gravità del disagio abitativo è il dato sugli sfratti, pubblicato annualmente dal ministero dell’interno. Il rapporto tra numero di provvedimenti di sfratto emessi e famiglie residenti nel territorio restituisce un’informazione sintetica su quante famiglie ogni anno si trovino, spesso per morosità, in condizione di immediata necessità di una sistemazione. Purtroppo questo dato è disponibile solo aggregato per province, ma trattandosi delle maggiori città italiane possiamo presumere che queste si facciano carico – almeno in parte – del disagio abitativo anche dei comuni limitrofi.

Nel 2015 la città più colpita dal fenomeno, con uno sfratto ogni 272 famiglie è stata Roma – che però è solo ottava nella classifica delle città che spendono di più in edilizia residenziale. Milano – il comune con la maggiore spesa pro capite – è settimo per sfratti. Fino all’estremo di Genova: penultima per spesa pro capite in edilizia popolare, ma seconda per numero di sfratti (uno ogni 317 famiglie).

Queste asimmetrie non necessariamente indicano pratiche negative. Purtroppo, ed è un grave limite per qualsiasi analisi sul tema, i dati sui comuni non integrano quelli delle aziende casa (ex iacp) che invece hanno un ruolo decisivo in questo segmento di spesa pubblica. Ma questi dati, presi con tutte le cautele del caso, segnalano possibili punti di sofferenza, almeno per quanto riguarda la capacità di alcuni comuni di rispondere alla richiesta di diritto alla casa dei propri cittadini.

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