La Corte costituzionale ha valutato, per la prima volta, la legittimità della disciplina delle unioni civili tra persone dello stesso sesso per quanto attiene al «cognome comune» scelto dalle parti dell’unione civile.
In particolare, la Corte ha ritenuto che la funzione del «cognome comune» − come cognome d’uso senza valenza anagrafica − non determini alcuna violazione dei diritti al nome, all’identità e alla dignità personale.
Deve pertanto ritenersi legittima la disposizione dell’articolo 3 del D.lgs. n. 5 del 2017, là dove prevede che la scelta del «cognome comune» non modifica la scheda anagrafica individuale, nella quale rimane il cognome precedente alla costituzione dell’unione.
Resta fermo che la scelta effettuata viene invece iscritta negli atti dello stato civile, ai sensi dell’articolo 63, primo comma, lettera g-sexies, del Dpr n. 396 del 2000.
La Corte ha ritenuto, inoltre, che ciò realizzi il coerente sviluppo dei principi posti dalla legge delega n. 76 del 2016, attraverso l’adeguamento delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile alle previsioni della legge sulle unioni civili, e in particolare a quella del suo comma 10.
Da ciò consegue la legittimità dell’annullamento delle modifiche anagrafiche intervenute prima dell’adozione del D.lgs. n. 5 del 2017.
La dichiarata transitorietà del Dpcm n. 44 del 2016 e la brevità del suo orizzonte temporale portano ad escludere che le novità introdotte da tale fonte di rango secondario abbiano determinato l’emersione e il consolidamento di un nuovo tratto identificativo della persona.